In questo periodo, non so per quale motivo, sono stato abbattuto e fiacco, mi sono chiuso nella mia stanza di Palermo nascondendomi nelle ombre, notte e giorno, per piagnucolare sul tempo che scorre veloce e sul fatto che sono un uomo molto povero, il più povero della terra. Come vorrei viaggiare, vedere il mondo, essere libero da ogni responsabilità, libero e basta. E intanto invecchio senza stringere un soldo tra queste mani. Ogni tanto qualche amico mi avvicina, mi fa una iniezione di speranza e risorgo come oggi è risorto il sole sul mondo, mi sento il mondo questa mattina e per questo comincio a girare per la casa, tiro su le tapparelle e permetto che il sole entri a frugare ogni angolo per farmi dimenticare in qualche modo che sto diventando vecchio e non posso fare tutte le cose che facevo una volta quando ero giovane. Ho davanti a me il l’Ora di qualche settimana fa con la recensione di Marcello Cimino su Bye Bye America. Egli mi confronta a Mario Puzo (vi sembra poco?}, a parte i milioni che quello ha e io non ho. Dice che il mio Bye Bye America ha più ragione di esistere dello stesso Padrino e che vale cento volte più la morale del mio libro, meglio un americano povero in Sicilia che un siciliano ricco — a quel prezzo — in America. E lo dice esprimendo una vera contestazione a tutto l’establishment facendomi sentire amico di tutti i collaboratori dell’Ora e dello stesso Nisticò e di Mario Farinella, i quali mi fanno ricordare la faccia sempre allegra del povero Mauro De Mauro nel tentativo di sfidare giornalmente l’onorata società. Oggi, dunque, permetto al sole di entrare e mi spingo nel liquido dorato con tutta la mia grossa pancia contento di essere ancora vivo. E come se tutto ciò non bastasse, ho ricevuto, alcune ore fa una lettera di Cesare Zavattini, sì, proprio lui, e posso dire a tutto il mondo che Zavattini è mio amico e che su questo non ho alcun dubbio. Farei qualsiasi cosa per questo amico, mi toglierei la camicia dicendo: Pigliala è tua, è l’unica che ho, ma voglio dartela perché sei mio amico e questo mi dà tanta fiducia. Urlo, girando per la casa, spaventando mia moglie, che io sono io, anche se sono il più grande fallito della terra e sono un ultimo felice, almeno in questo momento. Ammetto, certo, la possibilità che domani mattina non sarà più così e che camminerò pateticamente da una stanza all’altra chiedendo ai muri chi sono io e se vale la pena che io debba scrivere e scrivere e se qualcuno leggerà quello che scrivo servendomi di questo cervello magari più piccolo del tuo, perché io valgo più di una pietra, non è vero? Diciamo, magari, che valgo quanto quella pietra posata lì, sull’erba verde. Ma contentiamoci, dice Calogero Bonavia, siamo poca cosa «fratelli e figli miei carissimi». La vita bisogna accettarla così com’è. Ma io non accetto niente «fratelli e figli miei», io sono un contestatore e la contestazione o ce l’hai nel sangue o non ce l’hai. L’altro giorno mi sono svegliato con la sensazione che tutti mi avevano fatto torto. Per cominciare tirai un calcio alla sedia davanti al letto, mi dava fastidio, poi mi voltai per litigare con mia moglie, ma non c’era perché io ero a Palermo e lei a Trapani. Me la presi, allora, col mondo intero.
Oh! gridai, io sono intelligentissimo, io sono la fonte di tutto, sono il centro dell’universo e nessuno vuole saperlo. Maledetta sedia che se ne sta lì indifferente! Volete che mi fossi trattenuto dallo scaraventarla contro il muro? Stava lì senza acclamarmi e la spezzai in due pensando alle teste di tutti, tranne alla mia. Uscii da casa di corsa, guai a te caro prossimo se questa mattina mi metti uno sgambetto, lo contestatore, urlatore, io terminelliano, crescenziano scesi per via Libertà lasciando vorticosi mulinelli d’aria alle mie calcagna per avvertire il mondo intero che l’antigruppo era in marcia. Oh poveretti borghesi, poveretti! Andavano spalla a spalla con me, se avessero saputo, si sarebbero scansati, mi avrebbero lasciato più spazio lungo la via Libertà. Invece tutto andò come ogni giorno anche dentro il supermarket modernissimo. La gente si serviva umilmente, perché così si deve fare, spingendo il carrello ordinatamente, disciplinatamente come vogliono i managers della Standa. Riempitelo il carrello, non abbiate troppa fretta, andate piano, guardate ogni cosa esposta, comprate la bella merce messa in fila e in ordine per voi, tirate fuori i vostri soldi, riempite le borse che stanno a Milano, no, no, stanno in Svizzera, lì dove si va a sciare, o magari in Florida, ma che ci fanno in Florida? La fila degli acquirenti diventa sempre più lunga, sempre più lunga, è quello che ci vuole, staremo meglio, sempre meglio, quella fila ci assicura altre stagioni di sci, di alberghi eleganti e di soggiorni a Stresa. lo, a Palermo, lì, in fila mi dicevo, quando potrò andare anch’io a sciare? Scambiarci i posti io e quelli che stanno lassù, così, con un sorriso soltanto con un sorriso. La fila era lunga e il personale, lento com’è in tutte le Stands, ti costringe ad attendere molto. Il personale teniamolo scarso, meglio economizzare. Dopo mezz’ora giungo al banco della cassa. La signorina fa il conto, mette le bottiglie di coca e di aranciata e di birra dentro un sacchetto e me lo porge, prendendo le mie lire sudate al College, 27 ore e più alla settimana, porca miseria, quanto mi sento stanco il venerdì sera, ci vuole l’intero sabato per rimettermi in forze e poter godere il riposo della domenica. Due mila e 400 lire, mi aveva detto senza nemmeno guardarmi in faccia, il pubblico non ha faccia, le hanno insegnato, ma solo tasca. Poveraccia doveva essere stanca pure lei, batti e batti su quella macchinetta, batti tutto il santo giorno, avvita avvita a destra come Nat Scammacca nella Palermo moderna. Tic, tac, maledetto lavoro, avvita, tic, tac, a destra a destra tutto il santo giorno. Avevo le uniche e sole diecimila lire e glielo avevo date. Ora lei doveva darmi il resto. «Non ha 400 lire spicce?» disse. «No, signorina», dissi io dopo aver frugato nelle tasche dei pantaloni e così, per essere gentile con la signorina la invitai a darmi un pacchetto di caramelle. Lo feci per umanità, signori e signore! «Non si preoccupi, signorina, mi dia un pacchetto di caramelle». Quella allunga una mano e prende un pacchetto di menta. «Mi dispiace, signorina, che sia capitato proprio in un’ora di punta, c’è tanta gente che aspetta, ma io la menta non la voglio, lo vorrei un pacchetto di caramelle, maledizione come si dice, questo italiano a volte mi fa certi scherzi, vorrei un pacchetto di caramelle technicolor». «Assortite vuole dire, sono lì in fondo, le prenda lei stesso». Non voleva alzarsi, le avevano detto certamente che non doveva lasciare mai il suo posto o forse le avevano insegnato a non perdere troppo tempo con i clienti che se la prendono un po’ lunga, perché il tempo è denaro per quelli che stanno in Svizzera. Era proprio per questo che la signorina aveva deciso di non alzarsi a prendermi le caramelle e mi guardava un po’ infastidita. Alla sua risposta, io, come un toro, alzai un po’ il groppone pensando guarda un po’ che questa a furia di avvitare a destra ci crede sul serio, filare, filare, girare, girare, come vogliono quelli. «Signorina, non lo dico per rimproverarla, ma veda che lei qua dentro è la commessa, ed è le* che deve pigliarmi le caramelle, io sono il cliente: ho fatto anch’io il commesso in un Milk Bar alla stazione di Pensilvania e i costumi, pardon, clienti, dovevo servirli. Comunque quello che voglio dire è che tocca a lei prendermi le caramelle; guardi, la fila si allunga sempre più, le signore bene devono ritirarsi prima dei mariti, così quelli non potranno sapere che dopo una mattina di gironzolare per la città si sono ridotte a far la spesa proprio all’ultimo momento, non vorrei essere causa di dissapori familiari, i mariti hanno fame quando tornano dagli uffici, diranno; ma oggi non si mangia in questa casa?
lo non vorrei, signorina, un po’ di pazienza. Dunque, io per farle un favore ho accettato di prendere un pacchetto di caramelle ai posto delle cento lire, ora lei sarà tanto gentile da darmi le caramelle che io preferisco. Capisco, parlo troppo, signorina ma che ci posso fare? Lei, signorina, ha paura di perdere tempo? Ma non capisce, signorina, che lei non è la padrona? che i padroni stanno lassù, molto lontano da Palermo? Glielo hanno insegnato bene, signorina, a girare a destra, avvita a destra, a destra, signorina, e con tutte le signorine qua dentro». «Ma signore, lei non capisce che tutte quelle persone devono essere pure servite? Non vedo quanto è lunga ora la fila?» disse la signorina. «Vada, vada lei a prendersi le caramelle». «Come?!!!» e mi voltai verso la lunga fila di gente già rumoreggiante, «lascio giudicare a voi signori, devo essere io a prendere le caramelle, io che sto facendo un piacere alla ditta e alla signorina, o la commessa che da me riceve in questo momento una gentilezza dato che rinunzio alle mie cento lire in cambio di un pacchetto di caramelle che non ho alcun desiderio di comprare?». Sentii dalla coda di quella fila impaziente un leggero sussurro, ma va fa nc… «No, signori, questo no e poi no, qui siamo tutti gentiluomini e io sto chiedendo il vostro parere». Intanto si avvicina il manager. «Posso esserle utile, signore?» fece untuosamente. Si vedeva, era lui il capo. Gli spiegai come stavano le cose e impiegai circa tre minuti. La gente fremeva. «Lei ha perfettamente ragione, caro signore, le caramelle assortite gliele prendo io», e si avvia verso lo scaffale delle caramelle, ma le mie parole lo fermarono di botto. «Scusi signore (ingranaggio degli ingranaggi), ho pensato che adesso che c’è lei può risolvere meglio la cosa, non voglio le caramelle ma le cento lire di resto che mi spettano, certo se fossi un uomo buono non direi quello che sto dicendo, ma che ci vuole fare, io sono fatto così. «Mio marito sarà furioso se rientrando non trova il pranzo pronto». «I miei bambini sono usciti già dalla scuola e mi attendono in portineria». «Fate in modo che la smetta, chi ce lo ha messo tra i piedi questo scocciatore» e bla bla bla, urla e proteste. Un omuncolo, certamente il capo dei capi in qualche ufficio della Regione, si vedeva dalla risoluzione subito presa, mette la mano in tasca e tira cento lire. «Ecco qui le cento lire, ma se ne vada per favore!». La società bianca palermitana guardò il signore con grande riconoscenza e tutti non vedevano l’ora che io sparissi. Via di qua, fai funzionare l’ingranaggio dell’establishment. «Grazie signore, non ogni giorno sono così fastidioso, mi dispiace molto, ma dovete sapere che non è bene sottomettersi all’ingranaggio. Vado via, va bene, vado, vi interessa che mi levi dai piedi, ma ricordatevi di non sottomettervi sempre». Uscii e mi avviai lungo la via Libertà, alla fermata dell’autobus. Destinazione casa. Camminando pensavo che esistono molti tipi di persone. Quelli che s’inseriscono e salgono sui pioli della scala dell’ordine e arrampicandosi gradualmente ottengono tutto quello che vogliono e continuano ad andare sempre più su. Solo un terremoto sociale potrebbe farli cadere. E quelli che cercano di arrampicarsi e cadono e, infine noi, gli ultimi, quelli che non approfittiamo nemmeno se ci porgono la bella promessa su un vassoio d’argento e dobbiamo allungare la mano e non ci sembra giusto e ti incoraggiano, prendila, prendila, e tu non lo fai perché sei quello che sei, perché, per una strana combinazione, tu devi esser ultimo e in ultimo devi rimanere, devi vagare tentoni, mangiare pane e cipolla e quando vai a! ristorante cercare un ristorante di terz’ordine; ci pensi su un’ora se devi o non devi prendere il taxi e poi sali sull’autobus e paghi le tue cinquanta lire. Rosicchiando questo osso di malcontento e di rabbia, lamentandomi contro me stesso perché quello è il mio posto, dato che me ne sto sempre all’opposizione e non ho naso come dicono i ricchi, porco è e porco rimane, non me lo hanno detto davanti, però, perché il naso a quest’ora non lo avrebbero nemmeno loro, salii sull’ autobus e faticosamente cercai uno spiraglio tra la folla per trovare due piedi e solo due piedi di spazio. Nel sedile davanti a me se ne stava un vecchio che a quanto pareva, era disposto verso il mondo così come lo ero io. La sua faccia acida e scorbutica mi faceva quasi simpatia. Lo so, caro sconosciuto, lo so quel che pensi, è giusto che tu tenga il grugno verso questo dannato mondo, hai ragione, pienamente ragione. Miracolosamente, intanto, un giovane dalla vita stretta riuscì a scivolare tra la folla e si piantò davanti a me, vicino al vecchio, e non sapendo dove mettere il suo braccio spinse il gomito nell’orecchio del vecchio. Questi, naturalmente, si voltò e i suoi occhi mandarono lampi di rabbia, lo, non so come feci, alzai entrambe le mani per fargli vedere che io non c’entravo, che i miei gomiti erano in un posto lontano dal suo orecchio. Allora il vecchio si volse al giovane come per dire: ma non c’è proprio altro spazio dove mettere il tuo gomito? Il giovane ritrasse il braccio, ma poiché aveva nel frattempo creato un certo contatto con una signorina che si trovava accanto a lui, non ci fece caso e si sedette, quasi, sulla spalla del vecchio. Proprio in quel momento una catena di incidenti sposta l’attenzione di tutti verso il controllore che asciugandosi il sudore che gli cola dalla fronte, è giorno di scirocco, cominciò a gridare: «Avanti, andate avanti, c’è ancora posto».
Lo scirocco soffiava anche tra ì miei capelli e cominciai a urlare: «Qui non c’è spazio, non ce n’è. lo non mi sposto di un centimetro perché non ce n’è la possibilità; signori, vi prego, andate indietro, non ammassatevi qui davanti, rimanete indietro». «Avanti», gridava il controllore. «Indietro», gridavo io, «qui siamo pressati l’uno all’altro, siamo schiacciati. C’è qualcuno che può aprire un finestrino? Qui ci vuole aria, non altra gente». «Ho tentato di aprirlo», grida uno alla mia destra, «non funziona». «Avanti», grida il controllore. «Indietro, non ascoltate il controllore; chi è che può inscatolarci qui e ci lascia pure senza aria perché i finestrini non funzionano? Volete scommettere, qui ci sono mille lire, che nessuno dei presenti sa il numero di persone che questo autobus può contenere? C’è qualcuno che lo sa, che se è chiesto?». «È vero, ha ragione, nessuno di noi sa quanti ce ne dovrebbero essere qui sopra secondo la legge». «No, non fate ciò che vi dice il controllore, ascoltatemi, che interesse potrei avere a consigliarvi di stare indietro? Perché dirvi una bugia se qui ci fosse spazio?». «Ha ragione, ha ragione» disse una signorina dai capelli bianchi, «siamo proprio sciocchi a farci insalsicciare da questo controllore». «Ci trattano così perché siamo in Sicilia, nell’ultima ruota del carro» disse uno, sicuramente un rivenditore di pesce, si capiva dal puzzo che aveva addosso e dal suo modo di fare spavaldo, «siamo in colonia, ecco quello che è la Sicilia». «Ma quello che si lamenta è un americano , non lo sentite dall’accento?». «Sono siculo-americano e mi interessa vedere trattati bene i siciliani». La gente si schierava pro e contro. Il contenuto dell’autobus era in pieno fermento. La discussione andava da un capo all’altro di quell’angusto recipiente e su tutti dominava la mia voce.
Lo scirocco soffiava anche tra ì miei capelli e cominciai a urlare: «Qui non c’è spazio, non ce n’è. lo non mi sposto di un centimetro perché non ce n’è la possibilità; signori, vi prego, andate indietro, non ammassatevi qui davanti, rimanete indietro». «Avanti», gridava il controllore. «Indietro», gridavo io, «qui siamo pressati l’uno all’altro, siamo schiacciati. C’è qualcuno che può aprire un finestrino? Qui ci vuole aria, non altra gente». «Ho tentato di aprirlo», grida uno alla mia destra, «non funziona». «Avanti», grida il controllore. «Indietro, non ascoltate il controllore; chi è che può inscatolarci qui e ci lascia pure senza aria perché i finestrini non funzionano? Volete scommettere, qui ci sono mille lire, che nessuno dei presenti sa il numero di persone che questo autobus può contenere? C’è qualcuno che lo sa, che se è chiesto?». «È vero, ha ragione, nessuno di noi sa quanti ce ne dovrebbero essere qui sopra secondo la legge». «No, non fate ciò che vi dice il controllore, ascoltatemi, che interesse potrei avere a consigliarvi di stare indietro? Perché dirvi una bugia se qui ci fosse spazio?». «Ha ragione, ha ragione» disse una signorina dai capelli bianchi, «siamo proprio sciocchi a farci insalsicciare da questo controllore». «Ci trattano così perché siamo in Sicilia, nell’ultima ruota del carro» disse uno, sicuramente un rivenditore di pesce, si capiva dal puzzo che aveva addosso e dal suo modo di fare spavaldo, «siamo in colonia, ecco quello che è la Sicilia». «Ma quello che si lamenta è un americano , non lo sentite dall’accento?». «Sono siculo-americano e mi interessa vedere trattati bene i siciliani». La gente si schierava pro e contro. Il contenuto dell’autobus era in pieno fermento. La discussione andava da un capo all’altro di quell’angusto recipiente e su tutti dominava la mia voce.
Salvatore, amico mio, sei proprio tu?
Vedendo quanto soffriva a stare imprigionato nella mia presa, lo lasciai e come una pietra egli scivolò via inabissandosi nel mare di folla. E finalmente l’autobus giunse alla mia fermata, agitando il braccio salutai tutti e scesi lasciando dietro di me una scia di commenti. Ero sicuro, la discussione da me iniziata sarebbe durata per parecchio ancora. Un po’ eccitato come se avessi litigato con mia moglie o come da ragazzo mi ritiravo dopo aver fatto a pugni, mi dissi, ora basta non devo rompere le scatole più a nessuno, almeno per oggi. Basta. Forse è colpa di questa mia vita fallita, mi dicevo, o forse sono una persona squilibrata, noi contestatori, in verità, manchiamo tutti di equilibrio ed è per questo che non ci facciamo mai livellare; forse mia moglie ha ragione quando mi dice che devo adattarmi alle cose come stanno, «lasciala stare un po’ questa benedetta tua contestazione», e dovrei credere pure in quello che dalla Svizzera dicono i padroni della Standa, «ma noi lo facciamo per voi, per darvi posti di lavoro, per darvi più comodità, per rendervi la vita più facile e più comoda; siete voi contestatori che ce l’avete con noi, che non ci date la possibilità di trattare, noi abbiamo buone intenzioni, non vi facciamo mandare i figli all’università? non vi facciamo guadagnare tanto da farvi la casa in campagna? e che volete di più? Siete voi che mandate tutto all’aria, voi contestatori». E a questo punto ogni buon cristiano (io non lo sono) avrebbe concluso promettendo a se stesso di rimanere calmo. Ma anch’io non voglio fare male a nessuno, se la gente sapesse quanto mi pento dopo aver litigato con mia moglie! E, ve lo giuro, mi ripromisi di rimanere in pace e tranquillo per il resto della giornata. Scendevo lungo la via Duca della Verdura e mi fermai al semaforo rosso, poi attraversai il quadrivio dirigendomi verso casa. Vi giuro che avevo proprio intenzioni buone. Tutti attorno a me sono persone buone, mi ripetevo, sono io la pecora nera che non riesce ad inserirsi, io, il cattivo, il peccatore. Giunsi sul marciapiedi di casa e nello stesso momento una macchina stava salendo per posteggiare e un’altra, invece, si muoveva per scendere; di fianco, un motociclista aspettava anche lui che io mi togliessi di mezzo dato che quello da me occupato era l’unico metro di spazio libero e lui doveva passarci con il suo motore rombante. Mi vidi guardare da tre paia di occhi che chiaramente mi invitavano a muovermi svelto, a togliermi di lì. lo mi fermai e, dimenticando i miei buoni propositi, pietà, signori, pietà, non fu tutta colpa mia, pietà per un peccatore, assunsi un atteggiamento di scherno verso il motociclista per primo; infilai una mano in tasca;, presi un fiammifero, me lo misi in bocca e pieno di bile dichiarai che avevo deciso di fermarmi un po’ sul marciapiedi. Tutti e tre si misero a gridare che loro avevano fretta e che dovevano muoversi, «insomma, dissi con voce pacata, la giornata è stata infernale, lo scirocco mi ha logorato i nervi, ora finalmente sono arrivato davanti casa mia e ho pensato di godermi per un po’ l’ombra di questo albero». Mi sentivo stanco, infatti, stanco come i crociati giunti a Gerusalemme; cosa volevano da me questi arabi, perché pretendevano che mi muovessi per la loro comodità? «lo sono qui e non mi muovo, signori, sono sul marciapiedi davanti alla porta della mia casa». «Ma così non posso posteggiare la mia macchina vicino al tronco del’ albero».
«E io non posso uscire la mia». «lo come faccio a passare con la mia grossa Honda?». «Ascoltate, signori, se voi mi costringete a togliermi di qui devo per forza andare in mezzo alla strada dove in verità dovreste trovarvi voi. O signori, che figura ci farei se andassi a fermarmi in mezzo alla strada? Tutti inveirebbero contro di me, direbbero che sono pazzo, si fermerebbe il traffico di tutta Palermo, volete che faccia una cosa simile signori?». A questo punto, quello con la macchina che doveva uscire era già in procinto di mettermi sotto, ma per fortuna arriva il vigile urbano addetto al vicino semaforo, che aveva visto da lontano che qualcosa non andava. «Cosa sta succedendo?». «Se questo non si muove, noi rimaniamo bloccati». «E lei perché non si muove?», mi chiese il vigile. «Perché sono giunto sul marciapiedi di casa mia e non sto facendo nessun torto alla legge dato che sono un pedone e mi fermo sul marciapiedi. Voglio godermi un po’ d’ombra, occupo soltanto due piedi di spazio; lascio giudicare a lei, sono io che devo spostarmi? Ma se mi spostassi andrei a finire in mezzo alla strada. Lascio giudicare a lei».
Il vigile intanto tira fuori il blocchetto delle multe; quattro paio di occhi lo fissano, chi avrebbe multato?