In via Firenze c’entrai ch’era già tardi con la valigia, il cappotto e un pacco di libri. Mi diedero la stanza, mi sdraiai sul letto e m’addormentai. Era estate, faceva caldo e a mezzanotte mi svegliai. La finestra era chiusa, l’apersi, guardai giù e mi venne da buttarmi sul selciato per dispetto o per paura, o forse soltanto per fare un botto. Passò un tassi, fece un po’ di rumore e se ne andò. Io rimasi solo alla finestra e il carabiniere sotto di me sul marciapiede faceva il piantone al Ministero. Mi venne da sputargli sul cappello. Mi sporsi e sputai ma non lo presi. Lui si voltò ed io mi ritirai. Il parquet fece rumore, mi tenne compagnia, mi misi a letto e cominciai a pensare.
Non sapevo perché me n’ero andato e non sapevo nemmeno perché ero venuto in via Firenze, al trentadue. Ci pensai un po’ e non lo sapevo. Ci tornai a pensare ma non mi riusciva di venirne a capo. Ora ci penso e non lo so neppure. Ma non potevo quel giorno pigliar sonno e perciò cominciai a pensare ad altro. Mi venne voglia di scendere ma non avevo la chiave del portone. Forse avevo fame ma potevo aspettare l’indomani. Mi spogliai e mi misi a letto. Faceva caldo in quella stanza a Roma, nel centro dell’estate con la finestra aperta. I grilli non cantavano e le macchine tacevano, tutte ferme come scarafaggi colorati lungo i marciapiedi. Quando pioveva tremavano di freddo, ed io con loro, ma quella notte tacevano. E le stelle non le vedevo dalla mia finestra, ma tanto tacevano pure loro.
«Che cazzo si campa a fare», mi ripetevo.
Fumavo, e mi veniva da vomitare. La pancia era vuota e nello stomaco avevo solo i succhi gastrici. Avrei vomitato volentieri pure quelli, se fesse servito a qualche cosa. Un mondo migliore. Per un mondo migliore, sentivo dire da tutti e dappertutto. Ma che cos’era questo mondo migliore; la vita più lunga o una vita senza stenti? Ognuno voleva una cosa diversa perché c’era chi aveva tutto e chi non aveva niente. Io non so cos’avevo. Forse avevo abbastanza per essere infelice, e troppo poco per essere felice. L’indomani lo domandai scherzando al sig. Manzi che lo vidi che tornava dalla spesa con i cefali ed il riso nella borsa per la minestra alla pescatora per i pensionanti che nessuno faceva buona come lui.
C’era il sole, come tutti gli altri giorni, ma opaco, grigio e afoso. Lui era di Ravello e parlava sempre del colore di quel cielo. Mi disse che quando al suo paese era incazzato guardava su in alto, si faceva due passi fino alla villa degli inglesi dove c’è il Bacco e i petti d’angelo, guardava in basso il mare e stava meglio.
Anch’io l’indomani stavo già meglio quando ebbi sentito queste cose. E glielo facevo ripetere sempre, sempre più spesso, quando ero incazzato e non sapevo perché. Poi decisi di andarci a Ravello e non ebbi più bisogno di parlarne con lui, che intanto era morto.
L’avevano portato all’obitorio, tutto rosso per l’infarto. Il perito non potè fare l’autopsia per molti giorni e così finì nel frigorifero. Alfredo poi l’andò a trovare e lo vide che stava tutto fresco e quasi colorito sul tavolo di marmo. Lui voleva dirmelo e io non l’ascoltavo perché la morte mi fotteva di paura. Ma lui raccontava lo stesso, s’indignava e poi se ne pentiva perché pensava ai suoi vecchi che lui nominava con rispetto e con amore. Lui l’amore lo cercava nelle donne, io ormai non lo cercavo più passione a vederlo così grande. Fece clic e tutto ritornò in silenzio come prima.
In istrada ritornai insicuro ed inquieto.
Presi la discesa ed arrivai in via Nazionale. Il bar era aperto e la chiesa no. Sarei entrato nella chiesa anglicana con le strisce bianche e rosse che mi piaceva e sembrava una chiesa genovese, ma era chiusa e quella volta che Joe e Mary ci avevano tenuto il concerto di viola d’ amore e pianoforte e loro mi ci avevano portato che l’avevo conosciuti in casa di Manfredi m’ero sentito in colpa e mi spaventavo di perdere la fede. Che poi non ce l’avevo più da tanto tempo ma mi spaventavo lo stesso.
A piazza Esedra, che aveva un nome buffo, ma prima mi piaceva perché era un nome greco e io avevo gli studi classici e noi studenti eravamo tutti migliori, mi sedetti sulla sponda della vasca. L’acqua non cadeva eh’ era tardi, ed il tritone s’era appisolato. L’orchestra suonava ed il cantante stava zitto.
Io guardavo i lampioni, i camerieri che correvano dentro e fuori dal recinto, gli alberelli piantati nei vasi di legno e il vigile del fuoco che mi stava accanto, più in là. Era buffo. Io là ci stavo e non ci dovevo stare. Qualcuno ci doveva stare e invece non ci stava. Non ci stava nessuno di quelli che conoscevo. Li avevo lasciati a casa, ma in quella dove stavo prima che in questa di via Firenze non ci avevo ancora dei ricordi. E non mi andava di andare a casa, né in quelle. E se avessi potuto non sarei più tornato in una casa e sarei andato a vivere in una grotta, o in una stalla, o in un biblioteca.
Poi quando l’uomo è andato sulla luna è stato là che sarei voluto andare, ed anche più lontano. Mi ci sarei portato Anna, pensavo quella sera, o anche un’altra donna: per non dovere stare solo, certamente, ma anche per creare un ordine umano, nellUniverso. E perché poi non doveva toccare a me?
La musica suonava, muoveva l’aria, e con l’aria m’arrivavano i pensieri.
L’uomo s’arrabatta. Per il posto, per la casa e per la tomba di famiglia. Fa l’amore, prima in piedi e poi nel letto. Poi fa i figli e gliel’ammaz- zano; con il tifo, la scabbia o con la paranoia. Fa la guerra e la vince. Fa la guerra e la perde, e gli ammazzano i figli. Se va bene gli muoiono nel letto. Da adulti, assennati, potenti o soltanto con la sclerosi.
E s’arrabatta, coglione, che non s’è potuto dare una vita più decente. Mi volto e il vigile se n’è andato. Mi alzo, giro attorno alla vasca e mi risiedo meticolosamente nello stesso posto. La musica non suona, ed io penso lo stesso: che non mi va più di studiare. Che è meglio fare il vigile del fuoco, vedere il fuoco, aprire l’acqua che tutti ti guardano, e poi spegnerlo, ma con bravura. E tutti che pensano che sei stato bravo e tu sei contento. Che se poi uno avesse fatto il vigile al tempo di Nerone e l’ acqua non c’era o non era abbastanza, e allora il fuoco non si poteva spegnere. Nemmeno con la sabbia che la dovevano portare da Ostia e forse Ostia non c’era perché c’era il Tevere e allora si chiamava in un altro modo.
Forse Fregene, con quella bella pineta che ancora me la ricordo di quando Corrado e le due svìzzere sulla giardinetta se ne tornarono a Roma e io rimasi, che ero sceso per la svizzera che stava dietro con me non ci voleva stare più e invece mentre ballavamo a Fregene allo stabilimento mi parlava del fidanzato che aveva lasciato e poi le ritornò il ricordo e s’infrigidì. Io rimasi sulla strada in mezzo alla pineta. I cani lo sentirono e m’ abbaiarono. Qualcuno telefonò ai carabinieri e ne arrivò uno in bicicletta che teneva la divisa e la lampadina. Quella m’illuminò e io gli raccontai tutto. Che la svizzera era una puttana e che io ero sceso perché m’ero incavolato. Uno fermò all’intimazione che ci aveva la donna accanto con i piedi sul vetro e tornammo a Roma che loro fumavano e parlavano e
io non ci avevo sigarette. Pensai d’andare a prendere le sigarette, ma avevo fame, che quella non m’aveva lasciato mai, nemmeno in guerra. E non bastava la paura, ma ci voleva pure quella. Poi vennero gli americani e a noi diedero una scatoletta, e se quelli erano gli invasori a tanti stava bene. Poi ci fu il CED e molti dicevano che non si doveva firmare perché se no scoppiava la guerra. Io ci credevo e tanti ci credettero. Ci fu un casino e la pace rimase. Poi ci furono tanti altri casini. Io ci stavo in mezzo, e poi la pace ritornava, e a me mi pareva di aver vinto la guerra e dicevo che avevamo vinto le battaglie. Lo dissi a zio Renato, quella volta che m’invitò a casa sua. Lui leggeva le poesie che scriveva in romanesco che poi l’ultima non la lesse tutta che aveva avuto un colpo e al matrimonio del nipote si commosse, gli salì il sangue alla capoccia e non potè finire di leggere la poesia che aveva scritto per l’occasione. Poi il nipote lo diceva a tutti che lo zio era morto per il suo matrimonio che aveva avuto il collasso mentre recitava e lo zio Renato era contento, o almeno credo.
Giovedì gnocchi e sabato trippa. Ma era venerdì ed era giorno di ceci. Ma a quell’ora, chi l’avrebbe avuto i ceci? Io l’avrei mangiati, anche a costo dei botti, ma a quell’ora le trattorie erano chiuse, i ceci non l’avevano, e poi uno non può entrare solo per mangiare un piatto di ceci, con
la pasta,con l’aglio, il rosmarino e un poco d’olio. Forse la pizza in via
Genova, che non costava tanto.
Prima però le sigarette, a piazza Indipendenza, al bar nel centro della piazza coi giardinetti intorno, le panchine di ferro e le cicche a terra pestate che lì si fermavano i tranvieri del capolinea, quelli di Zeppieri e tutte le prostitute, i magnacci e i fannulloni delle ore notturne che quello rimaneva aperto tutta la notte. Mario «er re dei cocomerari» ci si era fatta la Villa al Terminillo con le fette bianche e rosse. E con Alfredo una volta, che c’era confusione ed eravamo arrivati con la vespa e pochi soldi ne avevamo mangiate una dozzina e pagate tre lui ed io quattro. Poi lo raccontammo a Capone. Lui sorrise ma si capiva che non l’approvava. E allora Alfredo gli disse della villa al Terminillo che lui non l’aveva e nemmeno Capone e io non so se era vero ma a me mi stava bene, che lui era un ladro e io un poveraccio. Era lui che diceva «è arrivato Mario, quello di Regina Coeli», e poi spiegava che era per la storia delle calze di nailon e nessuno sapeva come era andata però tutti ci andavano e mangiavano le fette di cocomero sul blocco di ghiaccio con la foglia di felce.
Poi ci misero per maggiore pulizia un foglio di carta velina e così il cocomero non mi piaceva più. E Mario mi disse che era per l’igiene e teneva i coltellini, la salvietta e l’acqua per lavarsi le mani. Ora Mario non c’è più. Forse è a Regina Coeli c forse la gente il cocomero se lo mangia a casa. Ma quella sera c’era e parlava di calcio. Anche da Gigi il barbiere di via Ippocrate si parlava sempre di calcio e di schedine. E ne parlava pure Paolo l’aiutante che era più grande di lui, aveva i baffi come Stalin che lui era comunista e non lo diceva a nessuno che aveva paura di non entrare a fare il vigile urbano. Poi fece l’esame ma non di barbiere e divenne vigile urbano. E così non lo vidi più che tutti i vigili sembrano uguali col cappello, e Roma è grande.
Volevo fare qualcosa, forse ridere o parlare, che sono le cose che ti viene voglia di fare quando sei solo e ti domandi quello che devi fare. Ma uno non può ridere che ti pigliano per pazzo, e non può neanche parlare con uno che non conosce meno che al bar per chiedere il caffè o l’ aranciata, o in trattoria per domandare da mangiare. Lasciai la musica, le stelle e l’acqua nella vasca dell’Esedra. Lasciai tante altre cose nella piazza, che non avevano un nome o io non lo sapevo. Ma neppure loro sapevano il mio, e certo non lo sapranno mai. E poi, che gliene frega ai selci, ai portici alle lampade al mercurio e alle battone di come mi chiamo o chi era quel ragazzo seduto quella notte che l’alzava e se n’andava? Ognuno stava con se stesso, con le poche cose che ricorda. Ma io i miei ricordi l’avevo ormai consumati tutti quella sera e perciò camminando cercavo una strada nuova, un posto che non mi desse suggestioni, dove potessi farneticare avemmo un cane lupo e da grande la paura mi passò. Però quella di Satana mi rimase.
Per non sognare Satana, quello confuso della chiesa, e quello più preciso delle illustrazioni del marchese, ritornai ad affacciarmi alla finestra, ma nella strada non c’era più nessuno: solo una luce bianca, aggrappata alla lampada appesa all’altezza del secondo piano. Tutto il resto era in ombra, ed io pure. Capii allora il senso d’angoscia che prova la falena o il mollusco; come deve essere impellente il bisogno di morire, pur di calarsi nella luce. Pensai a quello sbalestrato mitologico della cera e del sole. Pensai d’andarci anch’io verso la luce, ma non verso giù che sapevo che m’aspettavano i sampietrini. Verso su volevo andare. Era un sogno da bambino. Poi però mi dissero che c’era la forza di gravità e l’atmosfera pesante. A scuola me lo spiegarono. Ma nessuno mi convinse che questa forza non si poteva vincere, e che l’uomo non potesse volare libero nell’infinito.
«Gli angeli sì e tu no», mi diceva padre Grisolia quando andavo al catechismo al Crocifisso. Io ci credevo e speravo di diventare angelo.
«Sii buono», mi diceva padre Grisolia.
Io facevo il buono, ma di volare niente.
Capii che m’imbrogliava. Ero bambino e mi fece tanto male. Un giorno però mi disse che da morto, sotto forma di anima sarei potuto volare. Allora sperai di morire presto, e forse lo sperai per qualche giorno. Poi però non successe, ed ora proprio non m’andrebbe, ma quella sera sì che avrei voluto, tanto era il peso che ci avevo sul petto, ed il sudore pure, che faceva caldo.
Mi cambiai la canottiera, mi rivestii e uscii piano piano perché adesso avevo paura del rumore. Scesi a piedi e ci volle un’infinità per fare i cinque piani. Nella strada i rumori li sentii e non ebbi più paura. I rumori della strada mi piacevano. Forse erano i bollori della fognatura o forse soltanto il gorgoglio dell’acqua nelle tubazioni: ma era come camminare in compagnia e perciò mi stava bene. Con quei rumori feci tanta strada. Dopo si aggiunsero i passi della gente, i rumori dei motori, le luci dei negozi o semplicemente quelle dei semafori. Ma era sui rumori del sottosuolo che io camminavo. Ci stavo a cavallo e mi sentivo sicuro. Come sicuro mi sentivo a New York quando di sotto tremava la terra per gli scossoni delle vetture del subway.
Scesi per via Nazionale. Continuai per piazza Venezia. All’incrocio col Corso saltò l’asta ad un filobus. Scese un bigliettaio e tirò le corde. Io mi fermai e lo guardai. Lui rimise in moto e partì. Senza rumori mi sentii di nuovo solo. Passai velocemente sopra il marciapiede, tesi l’orecchio e risentii il rumore. Questa volta era più forte per cui credetti di essere sopra la cloaca massima. Seguii il gorgheggio per un tratto, assorto e teso soltanto a percepirlo. Poi capii la strada che faceva e mi ci misi appresso.
«Vuoi vedere», dissi ad alta voce e quasi mi sentii, «che vado a finire al Tevere».
Io l’avevo visto lo sbocco della cloaca già una volta ma non mi ricordavo se era vicino alla Sinagoga o se era vicino al barcone del Ciriola. La strada quella sera mi portava verso il Vaticano e perciò mi venne da credere che lo sbocco stava dalle parti di Castelsantangelo.
Ora che ci pensavo, una volta avevo visto da quelle parti, o forse un po’ più giù, vicino al carcere, un uomo con canna e cestino. Aveva preso tre pesci e io glieli comprai, e la Capone non li volle che facevano una puzza del diavolo e avevano il colore della cacca sciolta nell’acqua. Poi li preparò col rosmarino, l’aglio e la mentuccia, li servì col limone e li mangiammo. Però tutti dicevano che quei pesci avevano mangiato la cacca e perciò nessuno li mangiò volentieri. Che poi non si capisce perché qualcuno in quella cacca ci si faceva il bagno.
La strada che facevo era il corso Vittorio, con Sant’Andrea, palazzo Braschi, la Cancelleria e il Metastasio, quello dell’araba fenice che mannaggia a lui lo dicono tutti, si sentono colti, si fanno la risatina e sono coglioni gonfi di mosto. Che poi non so perché di mosto, ma è che mi sono antipatici perché ridono dei luoghi comuni mentre io non riesco a ridere nemmeno delle parolacce sboccate. Ma è che a nessuno gliene frega niente di Metastasio e se qualcuno ci prova gli altri dicono che ha influenzato il suo tempo che poi non è vero, e se è vero la devono smettere.
A destra ci stava via del Governo Vecchio dove poi sono andato spesso perché c’era la Pretura. Io ho sempre creduto che fosse la strada dove una volta c’era il Governo, e chi sa quando, forse all’epoca di Cice- ruacchio, quello che ci ha una statua piccola davanti al Campidoglio che quasi non si vede perché uno guarda la lupa e non gli vie’ da credere che quella abbia allattato i due bambini. Io una volta appena a Roma sono andato in Campidoglio. Sono passato di dietro, che tanto quell’anno la lupa era morta e la gabbia era vuota e perciò ho visto la statua di Cice- ruacchio. Sul lato del palazzo c’era una statuetta nera di ima lupa con le mammelle sproporzionate e tonde. E tonde erano le teste dei due bambini che quasi mi veniva da ridere. Ma per me la vera lupa era quella perché l’avevo vista sul libro dell’elementare, che allora c’era il fascismo e andavo all’elementare. E su tutti i libri c’era la fotografia o il disegno di quella lupa, non di quella vera. Poi al centro del Campidoglio seduto in una vasca con le luci dentro che gli mandavano la luce in faccia ed era bello vidi un tritone con un corno a tortiglione pieno di frutta che quasi cadeva giù e io pensavo che sul libro ci dovevano mettere il tritone con la frutta. E invece no, forse per via dell’autarchia.
Sulla sinistra invece c’era via Giulia dove c’erano i palazzi di quelli che una volta ci dovevano avere la grana e doveva essere una strada importante con le carrozze e i lacche. Una sera invece mi ci portarono che non so che cercavo. In uno studio di una islandese che pareva un negozio di straccivecchi c’era un triciclo in ferro per bambini di tre anni, di quelli con l’atrofia muscolare, una ruota di bicicletta senza la gomma, un gomitolo di filo di ferro che pareva che si era dipanato e non l’avevano più rimesso bene.
Lei era drogata. Dormiva e sbadigliava e poi mi disse che era per via dell’insolazione, che la mattina era stata a Ostia e invece aveva la pelle bianca. Ma tanto, a quelle la pelle scura non diventa mai.
Decisi di rimanere sul corso Vittorio, che quella era la strada giusta, la strada che precorreva la cloaca. Arrivato però in cima al ponte non me la sentii di proseguire. Feci una giravolta e misi di nuovo piede sulla riva, sulla sponda di Roma che mi stava cara e che rappresentava il mio confine. Intanto m’ero perduto la cloaca o forse a forza di pensare m’ero dimenticato di seguirla. Ma ormai nemmeno quella avrebbe dato un senso al mio peregrinare quella notte, tanto ero solo, e tanto solo volevo rimanere. In giro la gente non ci stava che era già notte. Cercai l’omega d’oro e non l’avevo. Avevo il polso nudo sudaticcio e certo era rimasto sopra il comodino. Ma il cielo era stellato, la luna stava al centro e io nello scenario facevo il lumicino. Guardai per terra e vidi la mia ombra un po’ sbiadita: era la sola cosa che giustificasse quel pendolo del cielo che vaga come un grullo attorno al mio pianeta.
«Ma che ci sta a fare?» dissi a un angelo, che era appena sceso e mi veniva incontro.
Era bianco illividito per effetto della luna e le trecce della polvere segnavano le rughe del suo manto. Sembrò stupito di una simile domanda ma volle ad ogni costo intrattenermi sul valore della luna come segno di sapienza, di grandezza e di bontà del creatore. E qui citò la massima d’un frate che per la sua sapienza fu ritenuto uno dei massimi dottori della chiesa.
Io che nella luna vedevo solo un globo afono e cieco, anche esso limitato dal circolo vizioso in cui s’era cacciato; che in quella sfera non ci vedevo niente che fosse sintomatico di vita, speravo tanto di vedere presto il sole; di non dovere avere un palliativo.
«È il sole la fonte della vita e perciò tu sei già morto», dissi al pezzo
di marmo che ormai non mi ascoltava.
Ma anch’io un poco morto mi sentivo e davvero quella sera la luna non aveva un senso. Poi gli uomini ci andarono e finì per averne anche di meno.
Speravo di vedere presto l’alba, la luce dei fanali scomparire, le cicale finire di tossire, la gente riversarsi nelle strade. E finalmente sarei andato a letto sicuro di svegliarmi in un frastuono, simile a un boato, a un’eruzione, che, Cristo!, esplodesse come il sole intero, almeno m’avrebbe detto ch’ero vivo.
Ebbi un sussulto, un’idea farraginosa che m’ero portato appresso su con gli anni. La dissi a quella statua di granito che adesso divertito mi stava ad ascoltare.
«Vedi, se la terra potesse avere un altro sole e non avere ombra il mondo intero, l’uomo intanto vivrebbe già il doppio. La luna, lo capisci, non è la stessa cosa. È piccola, riflette solamente un po’ di luce, e non dà caldo. Se magari la si potesse accendere!».
Questo era l’assillo che avevo quella sera. Una sera della mia vita se
ne andava e a conti fatti sapevo che non ne rimanevano poi tante. Fino a
sei anni credo non capissi. Certo non mi ricordo cosa sia successo. Dopo i sessanta sarò vecchio e rimbambito con la pertosse, l’ulcera e il mal di denti. Intanto sarò costretto a digerire, mangiare, cucinare, comprare la verdura, i vestiti ed il rognone. Dopo la scuola imparerò i valori della vita e avrò dimenticato quelli della scuola. Poi con la nascita dei figli (loro della mia sapienza non sapranno niente), ricomincio daccapo con la scuola e fisserò delle regole a me stesso quando comincerò a dirle loro. Da quel momento infine, ad una ipotesi di libertà goduta si sostituirà la finzione della vita. Dopo di me un altro, e poi un altro e un altro ancora: tutti morti d’acciacchi, per una palla di cannone o per le ustioni delle radiazioni senza nemmeno il gusto di scoprire il seme della vita, o di debellarne il termine finale.
La derisione segnata sulla bocca di quella statua mi fece delirare ancora un po’ sul senso dell’uomo sulla terra; della terra nel sistema solare; del sistema solare nella nostra galassia; dei quasar, dei pulsar e di tutti quegli altri accidenti che mi confondono le idee e mi fanno esplodere il cervello. Avevo voglia di dirlo a tutto il mondo che bisognava dire basta: ai sanculotti, ai sanfedisti, ai calvinisti ed ai predicatori; agli oratori, ai politici, ai mestatori e ai farisei; ai calvinisti, ai giansenisti, ai fascisti e ai comunisti. Volevo far capire che contro certe forze naturali a nulla sarebbero serviti ricchezza e gradi. Ma l’unico interlocutore che avessi quella sera sembrava tuttavia che non capisse, stretto com’era nella sua staticità inespressiva o forse solamente beffarda e indifferente. Si sarà sentito preso dalla noia, che quasi all’alba decise di voltarsi non so bene se per sfuggire al mio delirio o forse semplicemente per godersi lo spettacolo del sole che nasceva. Da quella parte però ci stava il cupolone, dentro la pietà, accanto la finestra delle benedizioni.
Sembrò commosso e le rughe gli si solcarono di pianto, lo guardai incredulo. A questo punto anch’io mi voltai, però dall’altra parte, e me ne andai. E ancora non capisco cosa volesse dire con quel gesto.
Con il sole questa parte della terra si scaldava, e con il caldo la gente ritornava nelle strade.
Ne vidi una decina nelle piccole viuzze di Roma antica, quella del papato, con gli intonaci giallini o giallo rosa, i selci bagnati di rugiada e quel leggero tanfo di muffa di cui non si sa bene l’origine e la storia. Uno più degli altri mi fece senso: era un macellaio corpulento col grembiule che gettava segatura sul selciato, la pestava con i piedi, e la portava dentro con le scarpe.
Poi scopò e il pavimento venne così lucido che uno ci si poteva veder dentro.
Io mi ci vidi, con le borse sotto gli occhi per il sonno e le pieghe che dal naso mi scendevano ai lati della bocca.
Passò uno e lo guardai. Andava verso il centro.
Dopo di lui un altro e poi tanti altri: e tutti sembrava sapessero la strada, che forse la facevano ogni giorno.
Io la mia non la sapevo più, o forse sebbene stanco non mi fregava niente e perciò mi misi appresso a loro. Camminavano incolonnati, chi più veloce e chi più lento. Uno dalla colonna si staccava, stringeva la mano d’un amico, si fermava a guardare una vetrina, entrava al bar e ordinava un cappuccino. Uno era triste e non parlava, l’altro appisolato e sbadigliava. Al bar il garzone metteva la lattiera sotto il tubo del vapore, il latte si gonfiava, la schiuma debordava e il profumo si spandeva.
Tutti gli incavolati tornarono sereni, e ce n’erano tanti. Uno ci aveva la lite con la moglie. L’altro non aveva dormito per il figlio che piangeva. Qualcuno aveva mangiato cotiche e fagioli e col bicarbonato aveva dormito appena la metà: ma almeno uno su tre s’era fatta la scopata con la moglie o le battone alla passeggiata archeologica o al Verano e d. aveva le ossa peste o i ginocchi indolenziti.
Io al bar ci rimasi per un pezzo a gustarmi il cornetto ficcato nel bicchiere: quello si gonfiava di caffelatte, la crosticina zuccherata si scioglieva, la schiuma saliva sempre più su e alla fine mi leccai le dita. Poi dentro il cornetto ci misero la marmellata di arance o di fragole e a me non mi piaceva più tanto come prima. Ma forse nel frattempo la fame era minore o chi sa che.
Prima la gente a Roma la mattina passava dal fornaio e con la pizza, di farina olio e sale con i buchi che inzuppava la farina faceva colazione; dopo con la cipolla o il pomodoro sfrittellato steso sulla sfoglia credette d’arricchire il sapore o la bellezza della pizza, ora la mangia col prosciutto, il salame o la salsiccia e non ci sente gusto. Che tanto la gente con i soldi la pizza se la fa come gli pare e non la sa più fare.
Ma quel giorno a Roma nel cinquantasei io non ero il solo che gustava il cornetto e il cappuccino e con i rimasugli del cornetto si gonfiava la bocca per il più saporito boccone del mattino. Venne un signore che forse sarà stato un operaio con la camicia aperta e il Pantalone, guardò la vetrinetta e gli occhi nello specchio dietro le bottiglie si capì che erano grossi e con quelli si sarebbe mangiati una dozzina di panini. Nelle zuppiere colme di olio c’erano funghi, olivette e carciofini, salmone rosso e alici, maionese e burro, affettati per crostini e mozzarella. Dai panini col prosciutto usciva il lardo ma quello ordinò pane e frittata, e sotto i denti mentre lo mangiava ci mise i carciofini, i funghi e le alicette, ma solo con gli occhi, che questo gli bastava per quel giorno. Poi dopo qualche anno lo rividi con il panino farcito di leccornie. Dietro la vetrinetta del bancone mezzo salmone scuoiato e affumicato con il caviale russo tenta d’allettare, ma gli occhi di quell’uomo ormai son persi contro lo specchio dietro le bottiglie, e non vedono più.
A me è rimasta l’immagine del suo gargarozzo che si gonfiava per spingere la pallina di frittata, il plaf della caduta nel suo ventre; a lui non lo so che gli è rimasto, forse semplicemente la voglia di aver fame.
Altre immagini conservo di quel giorno e tante altre non le ricordo più nemmeno se ci provo. Certo succede a tutti, di mescolare immagini e pensieri, e di ritenerne solo alcuni: ecco perché ogni giorno l’uomo è diverso da quello precedente. Però se si potesse trattenere l’immagine del bello ed il ricordo del piacere uno intanto vivrebbe in pace con se stesso, ed è già tanto.
Quanta di quella gente, quel mattino, si trascinava doloretti e sensazioni sotto il sole che cuoceva le lamiere delle moto e delle pensiline, o che scioglieva l’asfalto delle strade?
Quanto era durato il piacere del riposo e dell’amore nella notte, con l’aria calda, il letto duro, la moglie frigida o assonnata?
Io la moglie non l’avevo, ma il letto duro sì, ed anche l’aria calda nella stanza. E se per prendere il fresco della notte mi ero dovuto fare a tanta gente che troppo sola non si sarà sentita con gli amici accanto, le vetrine o magari i pizzardoni con quei gesti goffi e misurati che sono la cernie dei romani. Io pure vedevo il gruppo di bambini, il lustrascarpe, n giornalaio e l’attacchino con i manifesti, la scala, la colla e il pennello che colava gocce sul selciato: il muro l’imbrattò con convinzione, spalmò ri loglio e passò via lasciando un profumo di uovo cotto nel sapone.
L’immagine però durò poco, e l’odore fu sopraffatto dalla zaffata di nafta bruciata di un camioncino. Era passato un prete, tutto solo con Dio, che è cosa rara a Roma ed era andato verso il collegio romano dove all’ angolo di via Lata c’era un omino in marmo col cappello alla fiamminga che versa acqua da un barile in una vasca innestata nel muro del palazzo. Il prete proseguì ed io rimasi. Non so se avrò bevuto ma devo aver bevuto perché lo facevo sempre che c’era il bordo lucido di appoggio e mi ricordava il piede di San Pietro che tutti i fedeli baciavano. E poi faceva caldo e devo aver bevuto perché era estate e la bocca mi ardeva, ed anche il cervello che lo stavo perdendo. Non so nemmeno se anche quella volta mi fermai a leggere il decreto di quel monsignore che prometteva le legnate a chi faceva mondezzaio di quell’angolo che era scritto sul marmo e il marmo anch’esso infilato nel muro del palazzo, però quello di fronte, tanto che uno beveva, si voltava con la bocca che gli gocciava (ed è quando a uno viene voglia di cacciare l’ultimo sbuffo d’acqua), ma poi non lo faceva perché si impauriva del monsignore e il gotto a stento gli calava nella gola, e non ci provava più piacere.
canaletti e i medaglioni, e a me mi faceva effetto a vederle con la terra e con le piante coltivate al museo delle terme alla stazione, o con l’acqua che ci cascava dalla bocchetta, ai lati di dentro di Porta del Popolo quando mi ci fermavo per salire al Pincio con Anna. Io vedevo l’obelisco, le due chiese, la cascata illuminata sotto il belvedere e dicevo Roma è grande, e siccome non ci potevo fare niente pensavo di sedermi un giorno da Canova con le poltrone e i divani di raso a strisce bianche e verdi. D’estate però i tavolini erano uguali dappertutto e perciò non c’era gusto a sedersi da Canova. E lo dissi a Gigi che mi ci aveva portato di straforo d’inverno e mi piaceva; e però d’estate, che ci avemmo i soldi per prendere il caffè, da Canova mi sembrò un posto come un altro perché uno seduto all’aperto non guardava nemmanco la piazza, che però era sempre bella e poi non lo fu più che c’erano tante macchine giù per Roma e in tutti i posti.
Ma allora era diverso, ed era bello, con la primavera, le cupole, le rondini ed i pini.
Ci ripensai mentre camminavo e avrei ficcato la testa in un tombino. E non sapevo perché. Il tombino c’era, e la testa pure, ma non lo feci, così come non feci tutte le altre cose che pensai, o che pensai di fare. Scomparire senza morire non si poteva. Poi si parlò di ibernazione, ma allora no e forse non l’avrei voluto fare. Ridurmi in una pallocchetta e farmi fiondare nello spazio neppure si poteva. Poi gli scienziati dissero che invece sì, si poteva perché non so che storia degli spazi vuoti nell’atomo avrebbero scoperto tanto che raccontarono di un pezzo di metallo grande quanto un pidocchio che pesava non so quante tonnellate. Ma poi, grande o piccolo che fosse il corpo mio quello che mi importava allora era il rapporto tra la vita e il tempo che nella terra non è mai infinito.
Fu allora che pensai ad Anna ed alle sue parole, ed alle teste dei romani nei musei capitolini.
Quando c’entrai fu per qualche festa che non si pagava.
All’ingresso nel cortile, con le piante, il verde e il fresco che poi vidi con piacere a Valle Giulia nel Museo o Galleria non so bene, che c’era una mostra di Klee e ci andai e rimasi stupefatto, ma anche per le cose di Manzù che non avevo mai visto e non sapevo nemmeno il suo nome e se era scultore o che. C’era un piede di marmo e un pezzo d’avambraccio di un gigante che poi, siccome non aveva i muscoli come li faceva Michelangelo ma il piede era perfetto, dovevano essere i pezzi d’un ermafrodita. Io pensai che avrei voluto la statua del mio piede che poi ce l’ho bellino e la testa no perché mi dava quel fastidio, e nel tombino ci avrei messe tutte quelle collezioni di teste di generali, di consoli (che poi dovevano essere uomini politici), e di poeti, e forse ci avrei lasciato fuori solo quella
Quello con l’acqua faceva la sua parte e aveva un senso, io bevevo l’acqua e non ne avevo, ma non era solo questo, e non sapevo cos’era.
Ma allora uno che fa, quando le cose non le sa?
«Le domanda a chi le sa, o le inventa».
Diceva un personaggio del Seicento con tunica e cappello unto di grasso e stinto di sudore.
Apriva il breviario, leggeva e recitava: e gli altri applaudivano, sulla scena. Ma io sulla scena non ci stavo, ero uno spettatore, e non ci volevo stare. E intanto mi arrovellavo che per la madonna la verità non può essere tutta mimata o finta; che l’uomo nasce persona ma rischia di diventare personaggio, e se tale non diventa muore ignoto. E perciò Cestio s’ era fatta la piramide a Porta S. Paolo, che però non pareva nemmeno una piramide tanto era piccola a vederla dalla circolare. Comunque lui ce la aveva e tutti ne parlavano e nessuno sapeva chi era stato o com’era da vivo. Forse non si sapeva neanche quando era nato e dove, di che morte era morto e perché s’era fatta la piramide che per Roma era una cosa nuova perché tutti si facevano la tomba di marmo col coperchio, con i fregi, i canaletti e i medaglioni, e a me mi faceva effetto a vederle con la terra e con le piante coltivate al museo delle terme alla stazione, o con l’acqua che ci cascava dalla bocchetta, ai lati di dentro di Porta del Popolo quando mi ci fermavo per salire al Pincio con Anna. Io vedevo l’obelisco, le due chiese, la cascata illuminata sotto il belvedere e dicevo Roma è grande, e siccome non ci potevo fare niente pensavo di sedermi un giorno da Canova con le poltrone e i divani di raso a strisce bianche e verdi. D’estate però i tavolini erano uguali dappertutto e perciò non c’era gusto a sedersi da Canova. E lo dissi a Gigi che mi ci aveva portato di straforo d’inverno e mi piaceva; e però d’estate, che ci avemmo i soldi per prendere il caffè, da Canova mi sembrò un posto come un altro perché uno seduto all’aperto non guardava nemmanco la piazza, che però era sempre bella e poi non lo fu più che c’erano tante macchine giù per Roma e in tutti i posti.
Ma allora era diverso, ed era bello, con la primavera, le cupole, le rondini ed i pini.
Ci ripensai mentre camminavo e avrei ficcato la testa in un tombino. E non sapevo perché. Il tombino c’era, e la testa pure, ma non lo feci, così come non feci tutte le altre cose che pensai, o che pensai di fare. Scomparire senza morire non si poteva. Poi si parlò di ibernazione, ma allora no e forse non l’avrei voluto fare. Ridurmi in una pallocchetta e farmi fiondare nello spazio neppure si poteva. Poi gli scienziati dissero che invece sì, si poteva perché non so che storia degli spazi vuoti nell’atomo avrebbero scoperto tanto che raccontarono di un pezzo di metallo grande quanto un pidocchio che pesava non so quante tonnellate. Ma poi, grande o piccolo che fosse il corpo mio quello che mi importava allora era il rapporto tra la vita e il tempo che nella terra non è mai infinito.
Fu allora che pensai ad Anna ed alle sue parole, ed alle teste dei romani nei musei capitolini.
Quando c’entrai fu per qualche festa che non si pagava.
All’ingresso nel cortile, con le piante, il verde e il fresco che poi vidi con piacere a Valle Giulia nel Museo o Galleria non so bene, che c’era una mostra di Klee e ci andai e rimasi stupefatto, ma anche per le cose di Manzù che non avevo mai visto e non sapevo nemmeno il suo nome e se era scultore o che. C’era un piede di marmo e un pezzo d’avambraccio di un gigante che poi, siccome non aveva i muscoli come li faceva Michelangelo ma il piede era perfetto, dovevano essere i pezzi d’un ermafrodita. Io pensai che avrei voluto la statua del mio piede che poi ce l’ho bellino e la testa no perché mi dava quel fastidio, e nel tombino ci avrei messe tutte quelle collezioni di teste di generali, di consoli (che poi dovevano essere uomini politici), e di poeti, e forse ci avrei lasciato fuori solo quella
di Socrate che manco so se c’era nel museo, e poveraccio non ha scritto niente e almeno così l’avremmo visto in faccia. Fu per ciò che un giorno mi feci una fotografia al piede che ero stanco e seduto a Firenze in un sedile e vidi quel mio piede. Il fotografo però non fece caso che era una stranezza e non la sviluppò. Io lo dimenticai, e perciò non ci ho nemmeno la fotografia del mio piede.
«Meglio un piede di marmo che una coccia di bronzo».
Fu il motto che Gigi coniò quando seppe la stravaganza del mio piede. Lui però dimenticò il fatto, che pensava ai foulard, al jazz ed alla plastica facciale, ed io non ci riesco. E se ci riuscissi camminerei con i piedi in aria e la testa a capofitto sulla terra, o a rotoloni per le strade come un riccio: come quel riccio che vidi da Italo una sera che lui prendeva a calci per farmi constatare che era tondo come una palletta con gli occhi nascosti che non si vedevano, e si capiva che i calci l’avrebbe voluti dare alla moglie che non l’amava più per via dell’egoismo, delle donne, e dei soldi che lui voleva fare ad ogni costo.
Io, a pensarci bene, ai soldi non ci avevo mai messo amore. Non so se sapevo che per la chiesa era peccato o da bambino non me n’avevano mai dati e perciò mi dicevano che era peccato, e i bambini non devono averne. Poi dagli ebrei di California imparai che invece sono una cosa importante e anche le relazioni sociali. E io non lo sapevo e non ci credevo e perciò allora a Roma amici importanti non ne avevo, e nemmeno soldi, che poi non credo che mi importasse molto, ma di avere amici sì. Infatti con gli amici ci stavo volentieri, ed anche con Anna che il padre non l’aveva più in casa, e perciò l’affetto lo cercava con disperazione e pianto, fino ad umiliarsi nell’invocare la riconciliazione, con me che frastornato dall’angoscia di sapere, spesso scappavo dalla stanza e lei mi seguiva che mi vedeva passare; rallentava la mia fuga, mi faceva gridare, e con un bacio freddo infine mi calmava sotto le mura del Policlinico, che fuggivo sempre da quella parte.
Era d’inverno. I passeri dei tigli fuggivano vociando a quelle grida e i malati con la zimarra bianca dietro i vetri guardavano le stelle e piangevano forse per me.
Fu di sera tardi che arrivai al Policlinico, dall’altra parte però, sotto le mura degli ex voto che ora non ci sono più, e nemmeno le candele che la vecchietta con lo scialle all’uncinetto sulle spalle, la pancia grossa col grembiule, le calze e le scarpe col pelo di gatto dentro che usciva e faceva il bordo tondo tondo, accendeva ai burini che venivano a riprendersi i malati già guariti ed anzi no perché se uscivano guariti lo dimenticavano e invece l’accendevano quand’erano in corsia, ed al cancello aspettavano per ore mentre le foglie cadevano e il 6 stava fermo al capolinea. Poi il Comune non so come levò le lapidette lungo il costone d’angolo del muraglione, la madonna non fece più miracoli e la povera vecchietta sarà morta che era già grande, e se non è morta chi sa dove sarà. Che poi non è la sola di quel tempo che è uscita fuori dalla storia, o semplicemente dal mio ricordo. Però gli scambi a piazza della Croce Rossa, no che li ricordo, che poi non ho capito mai perché si chiamasse così visto che la Croce Rossa non ci stava, e nemmeno un pronto soccorso. Ma a pensarci bene i nomi delle strade prendevano nome dal signore che ci aveva il palazzo. Certe volte invece la strada o la piazza si chiama della rivoluzione e però i rivoltosi ci hanno fatto solo comunella.
Anche la ghiaia lungo il marciapiede sotto il muraglione me la ricordo, e le pozzanghere che uno schiacciava la ghiaia sulla terra, quella si affossava, sopra ci pioveva e uno poi si allargava e andava a schiacciare l’altra.
Anche dentro l’Università i vialetti erano cosparsi di pietruzze levigate che non so dove prendevano e forse al fiume ma non so quale. Poi l’asfaltarono e perciò nelle strade non c’è più la ghiaia e nemmeno la paura di finire dentro una pozzanghera. Ma non ci sono più nemmeno i sassolini da guardare e da schiacciare con pudore che uno con l’ombrello e la ragazza camminava, li schiacciava e quelli facevano rumore, urtandosi, per scansarsi. Ma allora se pioveva, uno camminava con l’ombrello ed ora no che nessuno più cammina e se cammina il rumore dei sassi non lo sente che poi sassi non ce ne sono più e se ci sono è perché si tratta di detriti che cadono dal camion di qualche palazzo che stanno per demolire che nemmeno i palazzi ormai muoiono di morte naturale. Tornando verso via Pavia temevo infatti di non trovare il mio palazzo, quello dov’ero stato fino al giorno prima e invece sì che lo trovai, però già un può diverso perché tutto stava cambiando repentinamente, ed io non so se era quello che volevo. E nessuno lo sapeva o forse solo pochi.
Poi succcesse che gli altri si son convinti che era giusto, e perciò ora a lamentarsene son pochi; perché tutti sono un può più sazi e pare che era quello che più gli interessava: e forse a me pure, allora, ed ora non più. Cominciarono con le calze più sottili, con il pane più bianco, con la vespa o la lambretta per tutti gli operai e l’aria di lì a poco divenne irrespirabile, poi si inquinò ed ora la tramontana porta solo il freddo e l’aria resta com’è. Già da qualche tempo un bar si distingueva per la targa dello yomo col vasetto rosso e blu tanto che uno entrava dentro e nemmeno s’accorgeva dell’odore del caffè o del caffelatte e per prendere lo yomo che nessuno sapeva come si prendeva, ci metteva lo zucchero, mentre dopo qualche tempo non lo metteva più e continuava a dire che era buono e invece era acido e a me mi disgustava.
Dopo qualche anno me lo fecero assaggiare i polacchi e io non dissi che non mi piaceva per delicatezza e poi perché se no m’avrebbero detto che i pomodori che noi mettiamo dappertutto e la salsa ci piace in tutti i modi non erano migliori di gran lunga.
Anche lo zozzone finì col mettere la targa dello yomo e mi voleva spiegare che il sapore sì non era tanto buono, però per l’igiene andava bene perché il vasetto era di plastica e perciò si buttava. Questo era vero diceva pure Alfredo però dentro ci stava l’acidognolo che poi non si capiva se questa puzza e il saporaccio era quello giusto o se invece s’era inacidito perché al inizio nessuno lo comprava e lo zozzone teneva spento o quasi 1 frigo riero tanto che una volta sotto il coperchio era tutto verde, io non veli, la zozzona l’agitò col cucchiaino e lo diede a Raffaele che disse che era buono e lo gustava leccando il cucchiaino che guardava fisso e si r eava Oggi non so se la gente sorbisce la mattina il vasetto del latte ina- eidixc che dicevano che andava bene per la pelle e uno ringiovaniva o chi sa che, non so bene se invece continua a prendere la tazzina di caffè, e fino a quando.
Che poi a pensarci bene nemmeno il caffè è sempre stata la bevanda rei mattino e perciò mi piacerebbe leggere o sapere cosa pigliasse la gente prima della scoperta dell’America del Sud.
<‘Ma che ti frega a te», mi dissero gli amici quando posi la questione in termini globali.
«Al mio paese il contadino non prende ancora niente e mangia a mez- : :mo», disse Alfredo che era di Cerro al Volturno, e si capiva che dav-
vero a lui non gliene fregava niente e invece parlava del prosciutto col me ri casa, della birra fredda da sorbire sotto il pino grande del paese su in campagna, però d’estate che faceva caldo. Lui ne parlava, la gola s’ agitava ed anche la mia e però la sete rimaneva che i soldi non ce li ave- amo né io né lui. Lui però parlava anche di scorreggie e almeno quelle le faceva, si sentiva più leggero che aveva le coliche e la gastrite* e perciò raceva la faccia felice.
Col tempo le insegne diventarono più grandi e poi più grandi e sempre più grandi ed ora non si vede altro che quelle, mentre gli uomini uno non li vede più, sono più sazi, e però gli è cresciuto l’appetito, mentre la cacca è rimasta sempre quella.
Avevo camminato tutto il giorno per i posti più diversi, in mezzo a secoli di storia divisi da una strada, da un muretto o da un recinto, pròvando una sensazione di impotenza di fronte alla progressione costante delle cose.
Anche le costruzioni medievali, con tutto quello che s’era detto della barbarie e delle nefandezze del costume di quel tempo, mi parvero incastrate in una logica formale che nella distruzione dei valori precedenti segnasse un dato nuovo, necessario. E tuttavia la distruzione ed il rinnovamento sempre si accompagnava alla conservazione dei cimeli ed al recupero dei segni del passato. Così era stato l’uomo fino ad ora e chi sa per quanto tempo ancora. Questa logica storica condizionava tutti. Condizionava anche me nel mio ritorno in via Pavia quella sera. Il costume e l’abitudine avevano finito col frenare il mio slancio di rivolta. Anch’io tornavo, non so bene se sconfitto, dal mio viaggio, e solo sapevo che non soltanto il mio mondo ma anche quello degli altri, non era più lo stesso. E non sapevo se ero contento o no. Mi sembrava d’essere stato al lunapark, con la rete appesa ad una canna, a raccogliere le palline colorate soffiate dalla turbina, ed alla fine del gioco la donna ti svuota la rete e ti rimette nella conca le palline per il prossimo gioco.
Il vulcano si riprendeva i suoi lapilli dopo averli sputati.
A pensarci bene i colli laziali erano stati dei vulcani e Roma sotto sotto doveva averci uno strato di lava. Io non so perché me ne ero andato a Roma. Ora però sapevo che da Roma non me ne potevo andare. Qualcuno dei miei nel tempo, io lo sentivo, s’era scavata la grotta nel tufo a Castellana, aveva avuto bruciata la capanna o distrutta la casa per un’eruzione. Ed alla fuga sempre corrispondeva in loro, ed oggi in me, un ardente desiderio di tornare. Tornavo e piangevo, tutto solo come un Cristo, e sapevo che quello che avevo lasciato non potevo più trovarlo perché guai a lasciarselo sfuggire dalle mani. E infatti non trovai più Anna né trovai la bonomia dei Capone che intanto avevano affittato la stanza ad altri studenti, e così avrebbero fatto per tanti altri anni futuri se intanto con l’atto di richiamo di zio Michele non fossero partiti non so più per quale parte dell’America. E non trovai più i binari del tram che intanto avevano ricoperto di catrame e poi li tolsero completamente quando rifecero il manto e dovettero far posto alle macchine, agli autobus e alle mille diavolerie del nostro tempo che ha scoperto il petrolio e lo brucia nelle città dopo averlo calato nelle stive, e dalle stive versato nel mare ad avvelenare i pesci e a sporcare le spiagge. Io la prima volta mi sporcai un calcagno a Nervi nel cinquantadue. Poi altrove mi sporcai la pancia e il naso. Mi divennero rossi per lo sfrego, mi indignai e rinunziai al mare dopo averlo sentito all’inizio liquido nel mio sangue. Ora vado in montagna e aspetto che i pozzi si esauriscano, ma so già che al petrolio sostituiranno l’atomo e le carni non saranno più rosse di unto ma di radiazioni.
Capone allora nel cinquantasei mi raccontava delle accelerazioni dell’atomo al Sincrotrone che lui misurava in megaton e mi sbigottiva. Ora pensavo all’accelerazione del processo della conoscenza e avevo tanta paura: camminavo e piangevo, e mi pareva nebbia.
Cosa cercavo tornando in via Pavia, nel quartiere Italia? Forse un mondo che non c’era più, quello di prima, o forse semplicemente il mondo, quello umano. Allora non sapevo tante cose, ora ho dimenticato le cose che sapevo e ne ho imparate tante altre, terribili. Avevo una donna e 1’ avevo rifiutata. Avevo dei confini e li avevo abbattuti. Ora spaziavo alla ricerca del sapere, e più sapevo più mi allontavano da me stesso, dalle cose comuni. Fu l’ultima volta che assistetti ad una messa, che sentissi tenerezza per un passero, o per un albero spoglio. L’indifferenza diventò disgusto per l’effimero: poi rabbia e dopo ancora rancore. Ora provo solo angoscia, e non sono il solo. L’America tutta prenderà l’acido lisergico, e dopo di loro tutti gli occidentali, e così di seguito fino ai popoli primitivi. E non era per la macchina, io lo sapevo quella sera, perché anche il tram era una macchina, ma camminava tanto, tanto più lentamente. Camminavo i piedi, e sapevo che non sarebbe più successo, e piangevo. Dal pianto al riso, dal riso alla pazzia, il passo è breve. Sembrava un’alternativa: accelerazione o pazzia, ma non era un’alternativa perché la strada era unica e necessitata. Chi poteva frenare o rallentare la corsa? Io non lo potevo però potevo uscire dalla sua logica solo che avessi previsto il pericolo. Ma chi ha paura del pericolo se non l’ha sperimentato? Camminavo e piangevo, e sapevo che ormai era troppo tardi. Sapevo che un uomo aspira a diventare un attore, e fin qui va bene, ma quando l’attore diventa personaggio da lì non esce.
Camminavo e piangevo, e bestemmiavo. E i fulmini dal cielo piovevano sopra di me, e nessuno li vedeva. Davanti al portone guardai la faccia di Severina. Non le domandai se li vedesse e certo lei non li vedeva ed io sì, perché nei suoi occhi non c’era paura ma solo la gioia di rivedermi, e con i denti mi rideva, e con le pieghe degli occhi. Altre volte 1’ avevo portata alla taverna a bere una fojetta di Frascati. Anche quel giorno, al mio ritorno, andammo a bere un goccio e lei sentiva il sapore del vino, il tanfo di cantina e quello dell’uovo sodo apparecchiato con maionese e capperi. Lei credeva che piangessi per Anna e mi disse di non prendermela che forse era meglio così. Lei parlava, guardava l’uovo sodo e la lingua le schioccava. Pagai anche l’uovo e la feci felice, ed io solo spero che qualcuno me n’offra uno uguale in una cantina di Roma mentre mi parla del pupo, della squadra di calcio e del fitto di casa quando il mio unico pensiero sarà per la giusta porzione di mentuccia nell’insalata; o uscendo dal portone guarderò la gente in faccia per riconoscerla e sorridergli, o per salutarla se sono già amici. Intanto però cammino e piango.
E se vedrete un giorno nel quartiere Italia un uomo camminare e piangere quello sono io: se non lo vedrete è segno che il mondo si è salvato e quell’uomo è felice. Lo troverete in una cantina a giocare a carte, con una piccola lavagna ed il gessetto in mano, a segnare i punti.