Prima ripresa
Aveva accettato per via della borsa. No, oramai lo sapeva, la conquista del titolo era pura utopia; anche a vincere l’incontro di quella sera non l’avrebbe, poi, spuntata contro Joe il massacratore, non per nulla lo chiamavano così. La borsa. Anche a perdere era un bel gruzzolo ed avrebbe potuto ampliare il locale che aveva aperto sulla riva del lago sin dall’estate precedente, dove i villeggianti venivano a cantare la sera «Firenze stanotte sei bella».
Firenze stanotte sei bella… Ed intanto furono fatti uscire i secondi. Al principio della carriera usava farsi il segno della croce all’inizio di ogni match. Per un po’ gli aveva portato fortuna, ma poi non gli era servito più a niente ed aveva smesso.
Lasciò l’angolo. L’altro era più alto e questo lo sapeva, ma non immaginava che fosse così giovane e così bello. Dalle fotografie non s’indovinava. Il giornali non esageravano davvero quando sprecavano per lui tutta ima serie di aggettivi: elegante, bellissimo, scultoreo…
Si studiarono con reciproca diffidenza mentre il pubblico schiamazzava. Riuscì a toccarlo un paio di volte al bersaglio grosso, ma d’improvviso un saettante sinistro lo raggiunse nel mezzo degli occhi.
Massena lo aveva avvertito: «Cerca di combattere a distanza ravvicinata e attento al sinistro». Aveva ragione Massena.
Uno stupido fotografo lo accecò col suo flash mentre una scarica lo colpiva ai fianchi. Il pubblico esultava. Reagì colpendo a sua volta, ma al nuovo assalto si ritrovò alle corde. Riuscì a piazzare un destro, ma gli occhi gli facevano male. Suonò il gong.
«Bene, bene» disse Massena massaggiandogli lo stomaco. «Ma stagli appiccicato e tieni la guardia più alta: vedrai che non reggerà sino alla settima ripresa».
Suonò il gong e Massena lo lasciò con una botta affettuosa sulla spalla. Era buono Massena. Ricordò quando a Parigi lo aveva salvato dalla fame dopo che aveva trascorso una settimana a mangiare pane e ciliege aspettando il vaglia di uno zio stanco di venirgli in soccorso.
Il rivale aveva gli occhi verdi e sembrava gli sorridesse anche quando lo colpiva. Per fortuna non molto forte. Reagì e riuscì a piazzargli un diretto nella mascella. Notò la smorfia di dolore che contrasse quella faccia di bambola e fu tentato di chiedergli scusa, ma il sinistro saettante lo colpì ancora duramente mentre il pubblico esultava con grande schiamazzo.
Si ritrovò alle corde. La faccia di bambola — anche i capelli biondi erano di bambola — era vicinissima: non riuscì a colpirla, il suo destro venne bloccato mentre avvertiva una fitta in basso, nel ventre. La bambola aveva colpito sotto la cintura: l’arbitro non se ne accorse o lasciò correre.
Riuscì ad aggirare l’avversario, a togliersi dalla posizione scomoda mentre veniva ancora raggiunto da qualche colpo di scarsa efficacia e la solita anima pietosa dalla platea gridava: «Ammazzalo! ammazzalo!».
Terza ripresa
«Bene, bene» disse Massena. «Vedrai che dopo la settima ripresa sarà uno straccio. Ne potrai fare quello che vuoi». Ma prima che l’eco del gong si fosse spenta del tutto, la bambola, nel mezzo del ring — solida sulle gambe — attendeva.
Ci fu uno scambio di colpi, leggeri, poi tornarono a studiarsi mentre il pubblico reclamava lo spettacolo, la lotta. Botte da orbi voleva il pubblico. Tornò a colpire ma senza efficacia. I suoi colpi si arrestavano contro la guardia stretta dell’avversario che indietreggiava a piccoli passi. La costrinse all’angolo e riuscì a piazzare un paio di colpi al bersaglio grosso.
«Forse ha ragione Massena» pensò. «Prima della settima ripresa ne farò quello che voglio».
Non sorrideva più la bambola. Ebbe qualche incertezza e si appoggiò alle corde. Forse era stanco, forse era già stanco. Aveva ragione Massena.
Dalla marea del pubblico salì un’ondata di disapprovazione per il bel campione che così toglieva smalto allo spettacolo e deludeva i suoi fans. Doveva approfittarne; quanto meno doveva farsi attribuire quel round ed incalzò a testa bassa colpendo di precisione. La bambola cercava di sottrarsi ai colpi, c’era disperazione e paura negli occhi verdi; sentì di avere il match in pugno: non bisognava lasciare tregua, respiro. Picchiare, picchiare, picchiare: aveva ragione Massena.
«Peccato» disse quando il gong suonò per segnare una sosta al combattimento. «Peccato!» aggiunse «che lei non sia qui a vedermi». «Puttana» pensò. «Puttana» disse tra i denti.
«Che ti prende?» chiese Massena. «Ricordati solo di combattere: tu sei ancora un buon pugile. Non devi farti distruggere da un capriccio. Non lo’permetterò!» disse ancora mentre per la rabbia gli si riempivano gli occhi di lacrime. Aveva il pianto facile Massena. Stava guardando verso l’angolo dell’altro senza vederlo e godeva il refrigerio della spugna umida sulla faccia. «Perché» si chiese. «Perché, così senza ragione, una donna decide di piantarti? Una donna? quella donna! quella che tu eleggi tra le altre, che magari non avrà niente che anche le altre non abbiano, ma che tu pensi valga più d’ognuna». Non disse niente a Massena che lo guardava. «E stata una buona ripresa» disse uno dei ragazzi mentre risuonava il gong per l’inizio del quarto round.
Quarta ripresa
«Ma perché» si chiese ancora, e la rabbia che sentiva contro il mondo, contro la vita che era stata una ben misera vita che per un momento aveva avuto e in un momento aveva perduto significato, contro quella donna che aveva amato ed amava, lo indussero a colpire più forte il pugile bambola, il pugile-bellezza, il pugile-giovinezza che faceva del suo meglio mobilissimo sulle gambe. E nel nome della fame fatta nel mondo quando si aggirava cercando un lavoro; nel nome del padre vissuto e morto di niente; nel nome dell’ amico studente che a Parigi riversava la sua tristezza in un clarinentto che piangeva tutta la sera, colpì ancora.
«Dov’era lei?».
«Una sciocca come mille altre» si disse per consolarsi, ma non trovava sollievo né a pensare questo né a colpire il pugile-bambola che però continuava a parare la maggior parte dei colpi e uscì con un destro d’ incontro che lo sorprese nel mezzo del ring sotto la luce impietosa che gli faceva male agli occhi. La bambola, a sua volta, era passata all’attacco e il suono del gong lo ritrovò alle corde, senza fiato.
«Non ti devi innervosire» lo rimproverò Massena. «Il match è ancora tutto da combattere».
Li spugna fresca sul viso gli diede nuovo sollievo. «Sono uno stupido» pensò «a sprecare così le energie. Debbo controllarmi meglio».
«Ma tu dove sei, sciocca ragazza?» disse, e Massena lo guardò con i suoi occhi acquosi: «Non devi farti distruggere da un capriccio» disse.
Quinta ripresa
Le cede un nuovo gancio sinistro. L’avversario appariva ancora freschissimo miigrado quello che aveva detto Massena. Ma non erano ancora idi seriima. Lo colse d’incontro mentre era sbilanciato e gioì nel leggere _r: smorfia di dolore sul viso bellissimo. Riuscì mediante abili movimenti rii dorso ad evitare i colpi di reazione, ma il fatto di essere più basso lo reo-era decisamente in svantaggio. Vedrai che dopo la settima ripresa sarà uno straccio. Ne potrai fare quelle che vuoi» aveva detto Massena. Ma ancora non erano alla settima. L’ arbitro intervenne a separarli e gli fece cenno di combattere a testa lira Li sua presenza, la sua cravatta a farfalla, dopo tanti incontri disputati. per la prima volta gli sembrò assurda. Che ci faceva lì un signore con cravatta e farfalla?
Un nuovo colpo lo raggiunse tra gli occhi che ora — specialmente il rinisere — gli facevano male davvero. Forse gli si stavano gonfiando. Massena gli aveva detto di tenere la guardia alta.
Decisamente andava male se il pubblico — un pubblico ostile — indiava la bambola e l’anima pia, anzi un coro di anime pie gridava
«Ammazzalo! Ammazzalo! Ammazzalo!».
Ricorrendo all’esperienza professionale riuscì a sgusciare dall’angolo e ad evitare una serie di colpi, ma uno lo raggiunse sbilanciandolo per un momento. Un fotografo lo abbagliò ancora col suo flash e si sentì stordito come un coniglio colto dai fari di un’auto.
Riuscì a piazzare un destro all’addome della bambola che indietreggiò boccheggiando. Si abbracciarono ancora. Il quadrato era un’isola di luce su un mare feroce e vociante.
L’arbitro intervenne ancora. Non si poteva dire che fosse stato sin lì un combattimento scorretto, ma l’arbitro aveva un’aria seccata e gli ingiunse di nuovo di combattere a testa alta.
Suonò il gong. Massena, nell’angolo, non si curò di nascondere la sua preoccupazione.
Sesta ripresa
C’era ancora un giovane in una soffitta — a Parigi o altrove — che riversava tristezza nel suo clarinetto?
Il mondo c’era ancora oltre l’isola di luce dove l’atleta scultoreo cercava di colpirlo tra gli occhi?
C’era, in fondo a una rete di stradine affollate sino a sera da venditori vocianti, una stanza al settimo piano e lì due ragazze stavano curve sui libri. Quanti libri!
«Non c’è niente di male se stiamo un po’ assieme la sera. La mia amica uscirà tra un momento». Beethoven o chissà chi sul giradischi faceva un baccano d’inferno e fuori c’era freddo.
«Non devi farti distruggere da un capriccio» aveva detto Massena.
Riuscì a piazzare un montante di scarsa efficacia, restò fermo sul colpo e si fece cogliere stupidamente da un gancio all’orecchio.
«Vedrai che non reggerà fino alla settima ripresa» aveva detto Mas- sena, e infatti la bambola appariva provata. Ora avrebbe dovuto passare all’offensiva, avrebbe dovuto attaccare come aveva fatto alla terza ripresa.
Ma la volontà non basta a far tornare ciò che è passato, sia che si tratti di una ripresa durante la quale hai piazzato dei buoni colpi, sia che si tratti di una stagione felice in cui hai creduto di essere amato.
Massena lo incitò con un gesto. Ma come fai a portare un attacco se ti senti appesantito da tutta la tristezza che gravita attorno alla tua vita?
Cercò rifugio nella memoria, nella stanza al settimo piano — era un giorno di febbraio, forse il giorno di san Valentino — tra divani pieni di bambole e tavoli ingombri di libri. Due ragazze parlavano piano, ma dalla platea una voce si levò forte, altissima gridò: «Ammazzalo! Ammazzalo! Ammazzalo!».
Si trovava ancora nell’angolo — è di estrema semplicità la topografia di un ring — e contro la voce solitaria che emergeva dall’oceano di una folla mai morta, immortale, assetata di giochi feroci, volle reagire e colpì la bambola in viso sorprendendola; e colpì ancora con odio contro i libri mai letti, contro la donna che aveva detto no, contro il destino.
Indietreggiava la bambola sempre mobile sulle gambe, ma già meno spavalda. La folla mugghiava come un mare.
Settima ripresa
Le note del clarino continuavano a suonare in un angolo della memoria. La città era attraversata da un grande fiume e una sera avevano ripescato il corpo di una ragazza. Il fiume portava verso il mare i rifiuti della città, e anche la gente che la città — la capitale felice — aveva rifiutato.
Ma adesso era il quadrato-isola, l’isola illuminata che andava alla deriva sul mare mormorante della folla. Si trovò ancora alle corde sotto l’incalzare del pugile bambola, senza fiato.
Forse si era sbagliato Massena. Erano già alla settima ripresa e quello, sebbene apparisse provato, non era uno straccio. Non avrebbe più potuto rime quel che voleva. Sentiva le gambe legnose e a fatica riuscì a parare : colpi che lo nvestirono.
Ebbe un guizzo di fierezza e replicò. Un montante lo raggiunse ancora. Massena aveva detto di stare attento al sinistro. Fu colpito ancora agli occhi. Massena aveva detto di tenere alta la guardia. Sapeva tante cose Massena, ma a suo modo era anch’egli un uomo fottuto, condannato a vivere ina vita vuota, senza scampo.
«Non devi distruggere la tua vita per un capriccio» aveva detto Mas
sena Ma le cose, Massena, non sono semplici cose. Tu le vesti e dài loro tutto li significato che vuoi e che mai si sarebbero sognate di avere.
Vi sono dei selvaggi in qualche parte del mondo che pigliano un pezzo di legno e dicono: «È dio». Ed il pezzo di legno è dio, Massena.
A qualcuno può capitare di chiamare amore un suo capriccio, a qualcuno di morirne. La ragazza ripescata dal fiume forse ragionava cesì.
Si trovò ancora al centro del ring. Massena si era sbagliato: il rivale in lucidissimo e riuscì a parare un suo destro con un abile movimento àd dorso. Gli si fece da presso. Adesso erano abbracciati, ansimanti, e l’arbitro intervenne ancora.
Sentiva di avere una montagna sugli occhi e la luce gli faceva male. Aviettì una fitta all’addome: la bambola aveva colpito ancora sotto la
cintura. Si chinò per il dolore e venne raggiunto da una combinazione di ganci.
Si trovò sul tappeto, in ginocchio. Era la settima ripresa: avrebbe dovuto essere la sua ripresa. La testa era tutta un ronzìo e le grida della folla esultante le sentì lontanissime. Aveva sbagliato Massena.
«.. .qua t tro.. .cinque… sei…».
Gli sembrò che l’arbitro avesse contato sino a quattro con voce bassissima e che al cinque avesse alzato il tono.
«…cinque…sei…».
La coppia di numeri si trovava nel numero telefonico di lei. Non aveva più fatto quel numero per orgoglio e ora l’arbitro pareva glielo volesse rimproverare.
Dov’era finito il suo orgoglio se non aveva nemmeno concluso in piedi quel match al quale si era scrupolosamente preparato?
Dalle fessure degli occhi stava guardando come uno stupido le scarpe bianche del rivale, l’atleta bellissimo, mentre lo contavano. Non tentò nemmeno di alzarsi e lasciò che l’arbitro arrivasse tranquillamente sino a dieci. Poi si recò a testa bassa al suo angolo dove lo accolsero nell’accappatoio.
Sulle spalle, in lettere chiare, v’era scritto il nome di un liquore che non aveva mai bevuto e che forse non gli sarebbe piaciuto.
Salì gente sul ring per congratularsi col vincitore e i fotografi scattarono fotografie su fotografie.
Non disse niente Massena. Aveva gli occhi acquosi di sempre. Forse stava pensando al “capriccio”. Lui non sapeva niente del clarino, né della ragazza ripescata dal fiume e dei suoi vestiti fradici, né del pezzo di legno di cui i selvaggi in qualche parte del mondo dicono: «È dio».