Le luci di città straniere si accendono nel ricordo e spesso risento la nostalgia dei primi tempi. Ho molto sofferto in principio. Si fa presto a dire una donna. La donna c’era. Sì, c’era. Ma non era solo questo. Nel ricordo viveva una patria verde di ulivi, tra essi nasceva il silenzio. Anche la donna taceva, ma quando la lasciai negli occhi aveva un grido represso. Le dissi che sarei tornato, poi ripensai spesso quegli occhi e quel pianto.Le mandai una cartolina da Amburgo, credo proprio da Amburgo. Non l’ho mai rivista. Mi hanno detto che si è sposata, ha figli. Dicono pure che vive felice. Non deve essere vero. Quando le scrissi da Amburgo le volevo bene. Forse non ho mai cessato di volergliene, ma era un bene senza fuoco che si affievoliva man mano che il tempo passava e finivo di sentire nostalgia per il paese, per la casa e gli ulivi, che frusciavano nella memoria soltanto nei momenti di maggiore sconforto. Furono molti quei momenti in principio. Ho incontrato altre donne. Le ho amate? mi hanno amato? Son cose che non capirò mai. Una volta in un locale, a Monaco, ho fatto a botte con un polacco per una ragazza; finii in prigione per una settimana e poi, quando sono uscito, ho cambiato residenza. C’è stato un periodo che cambiavo con molta frequenza: non mi sentivo a mio agio in nessun posto. Durante le mie peregrinazioni mi raggiunse una lettera piena di bolli. Veniva dall’Italia, dal mio paese. In essa mia sorella diceva che nostro padre era morto. Avrei voluto piangere ma non mi riuscì. Uscii di casa e camminai sino a notte cercando qualcuno, non so chi. Qualcuno al quale parlare del vecchio. Raccontare degli schiaffi che mi dava e del bene che mi voleva. Ma non incontravo nessuno. Nessuno col quale potessi intrattenermi a parlare e dire le cose di cui sentivo gonfio il petto. Il tempo era piovoso ed andavo. Ricordo di avere bevuto moltissimo. Devo essere entrato già sbronzo in un posto dove si ballava. C’erano tante ragazze e pochi uomini. Un locale alla moda come se ne incontrano tanti.
«Mambo! mambol».
Il vecchio se ne era andato. Il fiume di coppole nere dietro la bara sul carro tirato da cavalli neri, il carro coi putti panciuti e dorati per le strade polverose tra la gente che si toglie il berretto e saluta. Tra gente che si toglie il berretto, saluta, medita brevemente sulla morte e poi torna alle proprie faccende.
«Mambo! mambo! Balli male stasera».
Il carro traballa all’uscita del paese e i preti se ne tornano anch’essi alle proprie faccende. Pax.
«Prosit!».
Perché continuavo a bere con quella ragazza stupida che mi guardava come un fenomeno da baraccone?
«Mambo! mambo!».
«Prosit! Credi di farcela sino a casa mia?».
Ho detto di sì, ma abitava all’inferno o nei pressi.
Non ricordo molte cose. Mi sono svegliato l’indomani in una stanza che non era la mia. Avevo la testa tutta un ronzìo. Unica traccia della ragazza, un vestito a colori vivaci spiegazzato su una sedia.
Una megera mi sorrideva e mi offriva del caffè: «Tu matto».
La vecchia rideva sempre e mi faceva cenni per farmi capire che ero pazzo. Le avrei demolito i denti che rimanevano nella sua vecchia bocca. Mi ricordai di mio padre. Mi ricordai che avevo avuto una casa, una donna. «Tu matto».
Raccolsi le mie cose e me ne andai lasciandole dei soldi. Stavo male. Cercai a lungo nel portafogli una fotografia di mio padre. Ricordavo di averla con me: una vecchia fotografia uso tessera. Non la trovai. Rilessi la lettera come se una notte di sbornia avesse potuto mutarne il contenuto. Erano poche righe inequivocabili: mio padre era morto. Pranzai in una piccola trattoria vicino alla stazione e mentre mangiavo pensavo a mio padre che non faceva più niente delle cose che io potevo fare, delle cose che tutta la gente faceva. Sentii la gioia di essere vivo, di potermi alzare, muovere, correre. Ebbi improvvisamente voglia di una donna, per sentirmi più vivo, per sentire più forte il mio legame con la vita. La trovai nella stazione vicina. Aveva un viso d’angelo caduto. Solo la sera trovai un conoscente che mi condusse a casa sua e potetti parlare di mio padre mentre bevevo il suo vino. Dissi tutto quello che ricordavo. Della volta che aveva venduto la cartuccera in cuoio per comrare a me ed ai miei fratelli i doni per il giorno dei morti. Ora era morto davvero. Dissi della volta che mi aveva incontrato, giovinetto, in compagnia di una ragazza e mi aveva salutato togliendosi il cappello con ossequiosa ironia e mi aveva fatto sentire ridicolo. La moglie del mio povero amico, una ragazza piccola e rotondetta, mi ascoltava con le lacrime agli occhi ed il mio amico mi versava continuamente da bere scuotendo la testa. Mi ospitarono per la notte. L’indomani, quando ci lasciammo, sembrava ci vergognassimo di quanto avevamo detto e fatto la sera precedente. Mi trattarono con tanti riguardi. Ripartii quel giorno stesso.
Sospirato paese! Il cielo si stendeva come una vela azzurra oltre il ponte di pietra ove una mano aveva scritto «È vietato buttare immondizia» e nessuno lo leggeva. Un paese così. Buio di notte, con tanti cani e tanta sporcizia, col solo cielo, in alto, pulito; con case vecchie e nuove che crescono in disordine e la Matrice in mezzo, bella d’archi, colonne, stucchi e marmi: giocattolo di lusso costruito per un Dio amato male che non è certo il Dio dei poveri. Industrie niente o quasi: la miniera e l’industria del delitto, la lupàra, il coltello. Soltanto il vino ti regala un sogno da opporre all’odio e alla morte, un vino triste che poi, magari, vomiti sotto una sacra immagine votiva dove le donne accendono lumini. La voglia di ripartire mi ha ripreso. Ero tornato per tenere, da vivo, compagnia a quei morti? Non parlo solo di mio padre, ma anche di quelli che vanno ancora per le strade e la sera giocano a tressette, degli umili che mai erediteranno la terra. Son venuti a trovarmi parenti ed amici. Mi hanno abbracciato commossi ed hanno cercato di consolarmi. Mia sorella mi ha dato l’orologio: «Ha detto che è tuo, lo diceva sempre». Piangeva. Mi hanno consigliato di trovarmi una ragazza e sposarmi: ho la casa ed ho l’età giusta. Mi hanno pure invitato a fare una ramanzina ad un cugino più giovane che fa lo scapestrato: segno che già mi considerano dei loro: un morto col quale giocare a carte la sera. Ho visto il ragazzo: un ragazzo timido e indifeso che si limita a farsi crescere i capelli ed a guardare le ragazze all’uscita di scuola. Lo scapestrato scrive pure poesie, poesie d’amore. Non gli ho detto niente. Non l’ho detto a nessuno, ma qualcuno deve averlo ugualmente capito: voglio ripartirmene. Non ho niente da fare qui. Porterò con me l’orologio, soltanto l’orologio: ha un battito sonoro. Tic-tac, tic-tac.Ha contato le ore del vecchio. Le ore dell’amarezza e della solitudine. Tic-tac. Le ore dell’attesa e dell’agonia. Quanto tempo mi ha asperge Il domani diventava ieri; il futuro, passato; le stagioni scorrevi: e la speranza moriva. Tic-tac, tic-tac. Ho rifatto le valige e ho vegliato tutta la notte con l’orologio in mano : Era come tenere il suo cuore nella mano. Era il suo cuore che batteva nella mia mano.
«Tu matto», diceva la vecchia ridendo.
È ben lunga una notte. Il silenzio è fatto di mille rumori impercettibili, i rumori del tempo che frana verso gli abissi del nulla. Aspettavo un treno che mi portasse verso città rumorose ove ritrovarmi e perdermi ogni notte.
«Mambo! mambo!».
Cos’ero venuto a fare se non sapevo più piangere?
Forse il vecchio lasciandomi l’orologio aveva voluto raccomandarmi di vivere e di non sciupare il mio tempo. Aveva voluto ricordarmi la brevità della vita.Alla stazione non c’era nessuno e quando giunse il treno presi posto tra gente addormentata. Sistemate le mie poche cose, mi accinsi a prendere sonno anch’io per ritrovarmi, come uno che si sveglia tra due sogni, ancora una volta straniero.
«Tu matto. Tu matto. Tu matto».
Finalmente piangevo guardando i lumi che si allontana
vano sino a confondersi con le ultime stelle.