Siamo fuori centro. Qui, Tabuiana vive in una cesta di lamiera. Edificato il villaggio di tuberi e stracci, scrive al partito asserendo di capire l’azione di pace. Ma sono convinto dice che il tempo passa e la fame esige un cambiamento a breve distanza, guardiamo un po’ dappertutto, dove la minestra e il contorno non mancano e il pane entra in pillole autodidatte, lo specchio ci dice tutto, ma il senso d’aspettare dove lo vogliamo trovare, quando l’auto ha un padrone e l’elicottero è riveribile per sopprimere la fame. Dove con chi che cosa mi fate aspettare sulle spese, il benessere giornaliero surrogato dall’attesa concettuale, voglio vivere ora, una vita è quanto basta per una stronzata.
Il villaggio ha la sua forma ignota dei tamburi di prima fila, interamente sulle spese della burocrazia, deprecando il dare e l’avere, il lato seducente della mia pelle per la tua, patologica neo-capitalista, esposta al sistema cancerogeno, montaggio e scoppio, così senza un reportage degno della nomina a cavaliere della Repubblica, facendo finta che la città ha il suo libro bianco, scritto e contra scritto per più sequenze, fino agli argini strutturali della carenza politica, il nostro si porta il materiale adatto dal villaggio alla casa cachiera, per poi l’ufficio saturato al massimo, polvere, stipendio, straordinario, lotte sindacali e fame, per tutto il ciclo tabellario della carriera mai intrapresa, presso la nettezza urbana di un possibile pianeta o al mercato politico, dove arriffa il denaro: attenti a badda! (attenti al dado).
Appena entro nei vicoli che seguono i mercati in tante palafitte a bulbi capillari, per dovunque un mare concreto di miseria alza la bandiera, pochissime voci riposano dal vendere «la quarumi o u carcagnolo» con mosche sale e limone, festeggiando la riscossa zootecnica con vivo bianco e musica, ma tutti sanno dove riposa Tabuiana, il sole entra ed esce come le zanzare, tutt’altro che un villaggio prefabbricato a un solo piano, senza acqua e luce, qui un cane annusa e riconosce, ma la puzza di pesce è 1’ essenza estrema della pubblicità che la città non dimentica. Dice a voce alta, pulendosi le unghie. Da sei giorni non mangio perché mi dicono che è inutile dare ai vermi quello che non vogliamo, e la voce straripa asmatica, nasale, mangiare è un affare di stato: i politici mi assicurano l’immunità rappresentativa. Ma i vermi la sanno lunga molto più lunga dei pidocchi, e si lascia prendere dal sonno, è tardi, come un gigante di cartone che aspetta tutto dalle proprie mani.
Mentre continuo il giro, salto i pasti. C’è sporcizia dovunque, la radio trasmette i termini della nostra galassia in movimento, una voce mi dice che lo spazio è di tutti. Per la festa mi scosto dalla vendita dello zucchero filato, per entrare direttamente nella stazione chimica dei fatti: parlo con un ragazzo seduto dentro una bottiglia con rimasuglie di latte e birra, mi sorride per l’intera cartiera della corte saracena, mi segna sul muro affettuosi saluti come ali di pipistrelli e mi indica due donne coperte dalla porta trasparente di una grotta, dolcemente con il linguaggio del mondo mi offrono la boscaglia arrabbiata della vulva. Ma vado avanti perché il ragazzo aspetta una sigaretta accesa per raccontarmi la storia della vita di suo padre Tabuiana, malandrino architetto stratega convivente fino alla proliferazione razionale del rione, circoscritto dalla politica imperialista e dalla fame di due generazioni.
Farfugliando con le donne, lo scemo del rione, mi salta addosso come un ratto, parla a scatti, fa tutti quei segni che indicano la risposta sullo stesso volto deformato dalla fame: forse avrà una casa mi dico. Disposto a seguirlo nel budello dei vicoli, fino allo scarico dove passa la fogna, c’è un orto verdissimo, in alto, tra un albero monco e un muro fradicio una vecchia tabella rifatta da poco si legge: di Tabuiana è il luogo e pace a chi vi entra senza Dio. Una donna cieca in apparenza saluta, facendo il segno col pugno chiuso, ma io mi sento in un luogo artificiale, camuffato dal silenzio, e mi limito a fotografare l’albero marcio e il ragazzo che tace. Ma ecco che con un gesto sconcio, esplode da una porta chiusa, lo scemo del rione con baffi alianti e il cazzo di fuori. È il più saggio di tutti, mi gridano duramente le donne, dove tutte lavorano dal lontano cinquantanove. Qui è sacro mi sussurra il ragazzo appeso alla graticola, seduto al sole con due occhi in un lago preistorico: qui è la casa dove prolifera Tabuiana e quella che tu vedi, ferita a morte, la partigiana medaglia d’oro è mia madre concubina, felicemente sposata in Algeria, riprodotta per legge in scala nazionale: si fa pagare ma sa convogliare le forze principe con quelle proletarie. È la più bella del villaggio, e sembra che dica da lontano: ciao compagno non siamo soli in questa mischia giornaliera, come se piangesse dal di dentro.
A questo punto mi sembra di sognare, vedendomi offrire fragole rosse e vino della vicina cantina, dove sento cantare Bandiera rossa. Con impeto di gioia, la voce di Togliatti salta fuori da un disco sgangherato è l’ultimo discorso di Yalta ai bambini di tutta la terra. Il ragazzo seduto per terra, contorto come un groviglio di lamiere, piange di speranza: io rivedo i miei vent’anni sotto il muro e le bombe, rivedo questa gente una per una in mille dispute, e le lacrime ritornano e la voce acida risale i luoghi senza sole, e l’orto è verdissimo e le porte sono sbarrate ai bruchi e alla fortuna. Qui le speranze sono tante tantissime.
I ricordi non servono, e il denaro continua a giocare nelle meningi tuttofare. Ora gli amici sono nella piazza: forse avrò fatto una buona sequenza per la televisione ma dovrò ridiscendere nella tromba, per incontrarmi cogli spigoli della fogna, dove passa defecata dagli scarichi. Ma il mio vicino di spalla mi sussurra, preoccupato mi dice: Tabuiana conosce questa merda, le promesse sono tante ma non vende i voti del villaggio per non vedere la scavatrice oltre i sei metri. Appunto insiste che l’istanza al partito deve significare case lavoro pane sicuro per la gente, e ha scritto dappertutto Abbasso il governo e viva il partito comunista. Ma qui tanta gente non lo capisce. Mentre un frastuono di vecchi bidoni ci saluta fino alla festa in cima alla collina, dove il gioco della pignata aizza i ragazzi e stuzzica i vecchi, fino a quando non appare la diretta erede della “pulla” tutta poppe e culo. Le danze intrecciano le coppie, cosce e pance si toccano, il vino sembra acqua, e la festa proletaria continua senza eccezioni. Domani, mi dicono, Tabuiana piangerà per tutti. Il villaggio ora sembra una cacata, opinabile: qui non aspettano il socialismo certamente dall’alto. Si è fatto tardi, ma nulla verrà trasmesso, la città è un bordello.