LO PIÙ GRANDE SPETTACOLO DEL MONDO
Che potesse fare un discorso l’uomo-serpente, nessuno Parrebbe creduto, neanche lui che di discorsi non ne aveva mai fatti, tranne una volta per il compleanno della donna-cannone. Una tenerezza, un sentimento c’era, se corrisposto o no non sappiamo.
In quell’occasione disse quattro parole «studiate come se dovessi pronunziarle di fronte, che so io, al presidente, al papa, ma non le hanno ascoltate» si lamentò con il clown, il quale ne pianse per giorni interi e tutti lo credettero impazzito.
Si alzò dall’ultima fila, segno di silenzio e disse «se continuiamo così non la finiremo mai», e si arrestò di colpo come se temesse di aver detto troppo. Risposta un «cretino, sta zitto!» da cento bocche spalancate come fornaci e quasi l’aspettassero al varco; almeno questa impressione ne ricevette.
Il domatore, che era anche amministratore-unico-delegato, gridò sulla confusione con rabbia perché non ci aveva pensato «quell’imbecille ha ragione».
Il silenzio che seguì raggiunse gli inservienti e quelli della cucina che badavano a mescolare broccoli e riso per la cena stupirono.
«Dico che bisogna trovare una soluzione» disse Puomo-serpente puntando gli occhi-di-bue addosso al trapezista più nervoso e spazientito di tutti.
«Cosa dice?» chiese la guardarobiera che, quando capitava, poiché era mezza sorda, sostituiva la donna-segata-in-due.
«Che ha una soluzione».
«Per carità, non lasciatevi imbrogliare da lui» e la voce si propagò come corrente elettrica cadendogli addosso peggio di una bastonata inattesa. Vacillò e per non rotolare si afferrò alle natiche della donna-volante- sulla-corda, che gli disse «porco»,
«Non volevo».
«Cos’è successo?» si sentì ripetere dalla parte opposta.
«Ha toccato le natiche alla donna-volante».
«Chi gli ha dato un pugno?».
«Nessuno ancora».
Battibecchi, «cornuto, ruffiano» al suo indirizzo e il trapezista che si faceva tenere perché «un diretto su quella faccia idiota, guardatelo e ditemi se mi sbaglio, glielo do a quel cane fottuto».
La guardarobiera strillava «fatemi vedere» aggrappata alla manica di cuoio del cowboy-del-Texas, che sentiva puzzo di sudore e bestemmiava.
A questo punto parve opportuno al domatore intervenire «ce l’hai o no questa soluzione?» e fu, come dire, l’ago alla stella, che tutti s’appuntarono sull’uomo-serpente curiosi e divertiti; qualcuno anche con disprezzo. Strinse i denti che gli ballavano in bocca come tasti di pianoforte, pensò se incominciare con «signori!» alto solenne, come si fa nei comizi, con le braccia aperte e la spalla a sbilenco, ma temette le pernacchie. Si volse alla ricerca di un volto amico, un segno qualsiasi di comprensione ed il fatto che il clown continuasse a piangere sul petto del gigante-sui-trampoli, lo commosse talmente che si decise a parlare fino all’esaurimento, alla nausea. In fondo la ragione c’era ché era stato anche lui abbandonato dalla cavallerizza come il marito, un frocio e perciò poteva benissimo star solo, né il trombone aveva bisogno di spalla per presentarsi al pubblico. Ma il suo numero con chi lo faceva ora, «con la donna-cannone che non sa e non può saltellare perché l’esercizio richiede grazia, armonia e poi la immaginate voi con il pagliaccetto lustro, tutto nastrini e perline?».
Si sentiva scorrere per la mente parole e frasi opportune conseguenti, quasi dipanassero da una grossa matassa riposta e invisibile: riconosceva la sorprendente abilità con cui passava da un tema all’altro, dallo stile «che lo stile è l’uomo… Non ricordo chi lo disse, ma ci fu ed è giusto dargliene merito», alla convenienza, alla morale, al comportamento senza quelle contraddizioni o sovrapposizioni che simili argomenti comportano. «E tutti possono immaginare il dramma di una donna costretta a vivere con un marito che non sa farselo diventare duro, sì dico, impotente, omosessuale. Non intendo fargliene una colpa, ma capite come le frustrazioni possano determinare dei sommovimenti» e la parola gli piacque tanto che si mise a cercarne di altre di uguali risonanze «sovvertimenti, inquietudini dell’anima e dei sensi. Metteteci pure le insinuazioni, le toccatine del domatore, che è anche amministratore-unico-delegato, e dice questo a me che sono il padrone e questo a voi, perché bisogna pure entrare nella politica», e qui ebbe un vuoto di idee che superò presto quando udì, o meglio, pensò di udire da un posto imprecisato della seconda fila sotto il palchetto della musica esclamazioni di «bene! bravo!», per cui affrontò la questione del capitalismo, della produzione a catena, del consumismo che «ti mettono sul mercato, poniamo, cento, mille dentifrici al fluoro, al cloro, con o senza gardol e così via, e pretendono che io li provi tutti, che passi le mie giornate a strofinare i denti al solo scopo di dire questo è buono, quello no, quest’altro migliore, mentre quello schifoso».
Gli si chiedeva, a lui che non aveva mai contato niente, che non aveva in tutti i suoi anni mosso labbra per dire la sua opinione, gli si chiedeva la soluzione del problema. «E no, signori», lo poteva gridare «signori» senza tema delle pernacchie, «cercatevela la soluzione confacente, appropriata» perché una c’era semplice, così facile ed intuibile anche dalle menti più cretine di questo mondo, «vestiamo, sissignori, l’omosessuale con il pagliaccetto e i nastrini, insegniamogli a sculettare con vera grazia femminile, a mostrare le natiche nell’inchino ricevendosi toccatine furtive, le manate dell’amministratore-unico-delegato e padrone, così si salva il mio numero e il marito ritrova la moglie. Sì, dico, nella stessa persona ora lui ora lei secondo il momento, il piacere, l’inclinazione». Tossì sicuro e tranquillo per riprendere subito il discorso, ma dallo stomaco o da chi sa quale parte oscura e nascosta del suo essere venne su alla bocca un’articolazione, che uscì prima in sibilo, poi in un fischio lungo, allegro, saltellante. Quelli che sedevano di fronte vollero provare anche loro a fischiare e poiché ci presero gusto proposero una gara con tutti. La guardarobiera fischiava contenta perché così capiva qualcosa. Il domatore, che era anche amministratore-unico-delegato, al centro della pista con la frusta in mano batteva il tempo, segnava la durata e le variazioni del fischio; e si buttava a terra, si contorceva per la rabbia ad una stonatura o quando qualcuno faceva stecca. Solo il clown continuava a piangere in grembo al gigante sui trampoli, mentre si spegneva all’ingresso del circo l’insegna luminosa IL PIÙ’ GRANDE SPETTACOLO DEL MONDO